venerdì 31 dicembre 2010
Il cardellino e il calendario
C’era nel bosco un cardellino nato nel nido in una calda primavera. Ma un giorno dei cacciatori di frodo misero una rete e catturarono i suoi genitori. Lui rimase abbandonato nel nido, non sapeva ancora volare e quando si sporse per cercare di catturare un moscerino, cadde dal nido ai piedi dell’albero. Restò sul terreno ad emettere dei pigolii lamentosi sperando che tornasse la sua mamma a riprenderlo, invece arrivò un gatto e stava per afferrarlo, quando apparve la fatina del bosco, lo toccò con la sua bacchetta e lui riuscì miracolosamente a volare. Il cardellino ringraziò la fatina di averlo salvato e le promise che un giorno sarebbe tornato e le avrebbe portato un regalo per sdebitarsi.
Così poté tornare al suo nido, procurarsi il cibo e crescere. Divenne grande e bello, fiero del suo piumaggio e invidiato dagli altri uccellini per i suoi colori sgargianti. Si accoppiò con diverse cardelline ed ebbe anche tanti piccoli cardellini che aiutò a crescere e diventare indipendenti. Visse parecchi anni e diventato vecchio restò solo. Faceva fatica a volare e a procurarsi da mangiare.
Venne una notte di Capodanno che faceva molto freddo, c’era ancora neve sui campi e il cardellino non sapeva dove passare la notte perché aveva fame ed era molto spaventato dagli scoppi dei mortaretti e dei fuochi d’artificio.
Così entrò di nascosto da una finestra della casa dove abitava un boscaiolo, volò sull’orologio a cucù e quando l’uccellino di legno uscì per fare il suo verso, entrò nella casetta e si sistemò in un angolo, lasciando lo spazio all’uccellino ogni volta che rientrava. Quando questo usciva per ripetere il suo verso, anche il cardellino ne approfittava per andare a rubare qualche mollica sul tavolo della cucina.
Durante il primo giorno si rese però conto che quel riparo era troppo scomodo, perché la porticina si apriva solo una volta ogni ora, e se non si sbrigava a rientrare restava chiuso fuori, oppure rientrava ma non poteva più uscire fino all’ora successiva. Allora scoprì una fessura nella botola che portava in soffitta e si trasferì nel sottotetto. Lì dentro faceva più freddo, ma in compenso c’era un varco tra le tegole per poter uscire nelle giornate di bel tempo.
Il giorno dopo il cardellino vide il boscaiolo che staccava un foglietto con il numero uno dal calendario e lo gettava in un cestino. Poi lo vide tirar fuori da un cassetto altri foglietti con dei numeri, e quando venne il garzone del panettiere a suonare alla porta, lui gli diede alcuni di quei foglietti in cambio di una pagnotta. Il cardellino capì che si potevano usare i foglietti con i numeri per procurarsi del cibo, magari non solo pane ma dei chicchi di miglio e di altre granaglie di cui era ghiotto. Così volò a recuperare il foglietto con numero uno dal cestino e lo nascose in soffitta. E così fece anche l’indomani e anche nei giorni successivi. Ogni volta che il boscaiolo staccava e gettava un foglietto, lui lo raccoglieva col becco e lo portava nella soffitta.
Dopo una settimana pensò di avere abbastanza numeri per procurarsi qualche bel chicco di miglio, ma non sapeva a chi portarli per fare uno scambio. Allora si ricordò della fatina e della promessa che le aveva fatto. Tornò nel bosco e cinguettò finché la vide apparire sotto un abete. Le chiese se poteva donarle i suoi foglietti in cambio di un po’ di granaglie. La fatina sorrise e gli rispose che i suoi numeri erano troppo pochi per essere scambiati con del cibo, ma che potevano valere molto di più se lui avesse continuato a raccoglierli con costanza e glieli avesse portati tutti insieme alla fine dell’anno.
Così lui andò avanti a raccogliere puntualmente i foglietti del calendario, senza saltare neppure un giorno, e per tutto l’anno si contentò di pasti frugali, rubando qualche mollica nella casa e trovando qualche vermicello nell’orto.
Venne l’ultimo dell’anno e il cardellino voleva rispettare il suo appuntamento, ma gli mancava l’ultimo foglietto del giorno. Allora volò a staccarlo senza aspettare il boscaiolo, poi raccolse col becco un mazzetto di foglietti e li portò nel bosco, e così avanti e indietro con tantissimi viaggi finché non ebbe trasportato tutti i foglietti sotto l’abete della fatina.
Lei sommò tutti i numeri dei foglietti e disse al cardellino che aveva accumulato 5738 giorni, e che poteva scegliere se cambiarli in altrettanti chicchi di miglio, oppure trasformarli in un regalo molto più bello ed prezioso. Lui al momento, ingolosito, stava per scegliere il miglio, poi per curiosità chiese in cosa consistesse l’altro regalo.
La fatina gli spiegò che, per magia, lei poteva trasformare ogni singolo giorno di quel calendario nel miglior giorno che lui avesse finora vissuto, per rivivere cioè un anno fatto dei migliori giorni di sempre. Ad esempio il primo gennaio sarebbe stato il miglior primo gennaio di quelli precedenti, quello dove aveva trovato più granaglie, o cacciato più moscerini, o cantato meglio, o fatto all’amore, e così via per il due gennaio e tutti i giorni restanti.
E avrebbe potuto spenderlo da subito o quando volesse, perché gli avrebbe anche donato una vecchiaia lunghissima, una longevità come quella dei pappagalli.
Il cardellino non ci pensò due volte e accettò subito la seconda proposta. Allora la fatina toccò tutti i foglietti con la sua bacchetta e questi magicamente si ricomposero in un bel blocchetto, un anno meraviglioso che il cardellino avrebbe potuto iniziare a vivere già dal giorno dopo. Poi la fatina gli trovò un bel nido nel cavo del tronco dell’abete, dove appese il calendario, e il cardellino decise di iniziare a sfogliare il suo anno più bello fin dal giorno dopo, e visse felice per tanti anni ancora.
domenica 26 dicembre 2010
L'albero e il Natale
C’era un piccolo abete che cresceva rigoglioso e svettante nel bosco della montagna, accanto ad altri grandi e altissimi abeti e al loro riparo. Ma un giorno venne un boscaiolo e con l’accetta lo tagliò alla base, portandolo poi piangente di resina al mercato del paese.
Fu comprato dalla famiglia del farmacista e inchiodato su una tavoletta, messo in piedi in salotto e poi inghirlandato con festoni argentati, ornato con stelle e luci e tante palle multicolori appese ai suoi rametti aghiformi. Ai suoi piedi vide posare tanti pacchetti infiocchettati che la mattina di Natale i bambini vennero ad aprire con gridolini di gioia.
C’era una gran aria di festa in tutta la famiglia, ma il piccolo abete soffriva per la sua ferita e soprattutto aveva sete. Allora cominciò a scuotere leggermente i suoi rametti finché riuscì a far cadere un paio delle palle decorate, che caddero a terra in mille pezzi.
Sentì dire al farmacista che forse l’albero si stava seccando, poi lo vide versare qualcosa in un vaso d’acqua e si sentì immergere il tronco mozzato in quel liquido. Bevve con avidità e attraverso le sue vene spinse quella linfa a dissetare tutti i suoi rami.
Ma dopo pochi giorni l’acqua era finita e nessuno sembrava più preoccuparsi della sua sete. Allora fece cadere altre palle, piegò la punta per far cadere anche la stella luminosa che c’era in cima, e cominciò anche a staccare parecchi aghi dai suoi rametti e a riempirne il pavimento.
Venne il farmacista, e invece di portargli altro liquido nutriente, lo spogliò completamente da tutti gli addobbi, poi lo trascinò in fondo al giardino e preparò un fuoco per bruciarlo.
L’abete non voleva morire, così con le sue ultime forze sprigionò dalle sue fibre quella corrente elettrica che aveva visto usare dai grandi abeti per attirare i fulmini, e quando il farmacista stava per afferrarlo e gettarlo tra le fiamme, si sentì una grande scarica tra le nubi e una guizzante saetta di fuoco colpì in pieno l’uomo carbonizzandolo.
Ci fu una gran confusione, venne parecchia gente a portar via il cadavere e il piccolo abete restò abbandonato sul suo mucchio di sterpi senza che nessuno si curasse più di lui.
Nella notte piovve e la torba si impregnò d’acqua stimolando la ricrescita di tenere radici alla base dell’abete, che pian piano riprese forza abbarbicandosi al terreno.
Passò un anno, arrivò il Natale e il piccolo abete cominciò a tremare al pensiero che venisse qualcuno a tagliarlo di nuovo, dopo che per mesi aveva sopportato il cagnolino di casa che veniva a innaffiargli di pipì il tronco. Invece vide uscire i bambini del farmacista con le scatole degli addobbi, e in breve fu stupendamente adornato da capo a piedi, e riempito di lampadine che illuminavano la notte come piccole stelle lampeggianti.
Il piccolo abete crebbe rigoglioso e felice di risplendere ogni anno in quel giardino per la gioia dei bambini. Passarono gli anni, divenne il più grande albero del quartiere e anche i bambini crebbero , si sposarono e lasciarono quella casa.
Un giorno arrivò il sindaco a parlare con la moglie del farmacista, e decisero che per fare l’albero di Natale sulla piazza era molto più conveniente prendere quell’abete piuttosto che trasportarne uno dalla montagna. Così arrivarono i giardinieri del Comune, e in quattro e quattr’otto il povero abete fu tagliato, inchiodato su una pedana e innalzato in mezzo alla piazza principale del paese.
Il vecchio abete, ormai avvilito e quasi morto di sete, non ebbe neppure più la forza di reagire e provocare con la sua attrazione il fulmine. Ma spontaneamente il cielo, per punire gli uomini che non rispettano gli alberi e, invece di lasciarli vivi in vaso, li tagliano per Natale, scatenò un grosso temporale e un tremendo fulmine si scaricò sul grande abete bruciandolo completamente.
martedì 21 dicembre 2010
La rosa e le labbra
C’era una rosa rossa, appena sbocciata e consapevole del suo fascino. Non voleva sfiorire prima che il suo profumo fosse inalato e inebriasse qualche umana bellezza. Allora si lasciò suggere da una farfalla e le impregnò le ali col suo profumo. La farfalla volò sulle case cercando un altro bel fiore e vide una fanciulla seduta sulla scaletta del carrozzone di un saltimbanco, mentre rammendava la veste con cui ogni giorno ballava sulle piazze dei mercati. La farfalla batté le ali sui suoi biondi capelli il profumo scese come un velo invisibile a inebriare le nari della fanciulla, che sentì il desiderio di cercare la rosa da cui veniva quel buon profumo.
Così fece odorare le trecce alla sua cagnetta Ruby e le disse di seguire le tracce di quell’essenza sparse nell’aria. Il cane si diresse verso la reggia del re, la ragazza arrivò al cancello e chiese di entrare, ma le guardie le dissero che era impossibile. Lei però si mise ad aspettare, finché vide il re uscire dal suo palazzo per andare a caccia, seguito dai suoi fedeli scudieri.
Quando il cancello si aprì e uscì il re a cavallo col suo seguito e i suoi cani, la bastardina Ruby si mescolò abbaiando alla muta dei bracchi e la fanciulla corse in mezzo al corteo per recuperarla. Il re la vide e le chiese chi fosse e cosa facesse davanti alla sua reggia. Lei rispose che era una ballerina e che cercava una rosa del suo giardino, una rosa forse fatata, perché aveva sognato che odorandola poteva trasformarsi in una principessa. Il re si mise a ridere, ma incuriosito e anche attratto dalla bellezza della fanciulla, disse alle sue guardie di farla passare per andare nel suo giardino.
Lei entrò e seguendo il suo cane riuscì presto a trovare la rosa rossa, ma non la colse per paura di essere sgridata. Ne strappò solo qualche petalo, e lo portò alle labbra per tingerle di rosso e impregnarle col suo profumo.
Quando tornò al cancello per uscire, le guardie la trattennero per ordine del re, e nonostante le sue proteste la scortarono con la sua cagnetta nel palazzo e le dissero di prepararsi per intrattenere il re quando fosse tornato. Lei sapeva solo danzare e aspettò il re nelle sue stanze per fare un bel ballo insieme alla sua Ruby.
Quando il re tornò dalla caccia, aveva con sé altre ballerine per riempire tutte le sue stanze, poi vide la fanciulla e si ricordò del suo sogno. Allora le disse di ballare e poi le chiese se aveva trovato la rosa e se l’aveva odorata. Lei rispose che ne aveva il profumo sulle labbra. Allora il re le disse di venire a baciare il re, così sarebbe diventata una principessa. La fanciulla ubbidì e andò a baciare il re, ma lui voleva molto più di un bacio e le strappò la veste gettandola a terra e facendole violenza. A questo punto la cagnetta Ruby saltò addosso al re e gli morse violentemente l’inguine. Il re arrabbiatissimo chiamò un suo fedele scudiero e gli disse di cacciar via la fanciulla e chiamare l’accalappiacani per portar via quella bastarda di Ruby.
La fanciulla tornò al suo carrozzone e piangendo narrò la sua disavventura al saltimbanco, che minacciò il re di andare dai magistrati a raccontare tutto. Allora il re, per farsi perdonare e non avere grane, mandò una delle sue favorite al canile per far liberare Ruby, che tornò dalla sua padroncina, ancora in lacrime per la perdita del cane e della virtù.
Il re, per non farla più piangere, le mandò una collana di smeraldi e anche un collarino di rubini per Ruby. Così la fanciulla smise di piangere, perché …” sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re…”
mercoledì 15 dicembre 2010
Il pirata e la cicala
C’era un pirata che tiranneggiava tutti i mari veleggiando e razziando col suo galeone.
Era molto temuto dal suo equipaggio, e se qualcuno si azzardava a fiatare, sfilava un budello di porco che teneva attorno alla vita come cintura e lo frustava senza pietà.
Un giorno una cicala venne a posarsi sull’albero maestro e cominciò a frinire ininterrottamente. Il pirata cercò di colpirla col suo scudiscio, ma quella volava più in alto e ricominciava.
Furioso, il pirata ordinò ad uno dei suoi uomini di arrampicarsi sull’albero e di catturare la cicala con un retino, poi afferrò l’insetto e gli strappò le ali, gettandolo poi in mare. La cicala si salvò su un rametto portato dalla corrente e arrivò a terra, e anche se non poteva più volare e cantare, vibrando con le sue antenne radunò tutte le cicale dell’isola e le spinse alla vendetta contro il pirata.
Colti da un’improvvisa febbre riproduttiva, i chiassosi insetti si moltiplicarono come milioni di bollicine di una schiuma che in breve ricoprì l’isola e poi volò sul mare.
L’aria era scura come sotto un temporale, perché il grande sciame nascondeva il cielo. Le cicale raggiunsero il veliero e lo invasero completamente. Tutte le vele e le strutture del ponte sembravano briciole piene di formiche, e anche gli uomini dell’equipaggio si contorcevano ricoperti di cicale .
Il frastuono era terribile, come mille seghe elettriche tutte in funzione, e tutti erano costretti a turarsi le orecchie per non impazzire.
Gli uomini cercavano scampo sottocoperta , ma di ora in ora il veliero sembrava sempre più un colabrodo tuffato nell’acqua: le cicale filtravano da tutti i buchi e non si riusciva più a contenerle.
I marinai, sfiniti dalla lotta, cedevano ad uno ad uno come alberi avvolti dalle fiamme, e molti si gettavano in mare per non soccombere.
Il pirata restò per ultimo, non perché volesse affondare con la sua nave, ma perché voleva salvare tutti i suoi tesori. Trascinò un enorme scrigno sul ponte, però era troppo pesante per caricarlo da solo su una scialuppa, allora calò il battello in mare e poi con una carrucola cercò di far scendere lo scrigno. Ma le cicale lo accecavano, mollò la fune e lo scrigno sfondò la scialuppa finendo in fondo al mare.
Vistosi perduto, il pirata saltò fuori bordo, poi raggiunse a nuoto la scialuppa semiaffondata, la ribaltò e si nascose sotto per sfuggire alle cicale. Quelle però entrarono dallo squarcio fatto dallo scrigno e riempirono rapidamente quel riparo.
Il pirata allora sfilò dalla cintura il budello di porco, ci soffiò dentro per gonfiarlo, poi si immerse e cercò di usarlo per respirare stando sott’acqua, ma una cicala, attraverso quel tubo, gli entrò giusto in gola soffocandolo.
Le cicale, preso possesso di tutto il veliero, lo lasciarono navigare libero nel mare e da quel giorno il loro frinire smise di essere un cicaleccio assordante: chi incrociava il veliero sentiva soltanto un melodioso coro, come se a bordo ci fossero tanti marinai che cantavano insieme la loro libertà.
lunedì 13 dicembre 2010
La clessidra e la sabbia
C’era un pugno di sabbia che viveva felice in riva al mare, pettinato dal vento, accarezzato dalle onde che lambivano la battigia, baciato dai raggi del sole e solleticato dai ricami dei granchi.
Poi un giorno fu raccolto con una paletta e messo nel fondo di una scatola. Si sentì sballottato e poi abbandonato nel silenzio e nel buio per giorni e giorni.
Dopo un tempo interminabile, finalmente un giorno rivide la luce e gli sembrò di rinascere, era di nuovo libero e anche se non sentiva più il rumore familiare delle onde marine, poteva scorrere allegramente tra le dita di chi l’aveva raccolto, nuotare nell’acqua limpida di un bella vaschetta e asciugarsi beatamente al sole.
Ma poi si sentì versato e rinchiuso in una strana bottiglia da dove non poteva più uscire: riusciva solo a vedere attraverso il vetro le ombre distorte di un mondo estraneo e non sentiva più né il soffio del vento né la voce del mare.
Vide che c’era una piccola via di fuga sul fondo della bottiglia e con fatica riuscì ad infilarcisi, granello dopo granello, ma alla fine si accorse di essere caduto in un’altra bottiglia tale e quale la prima. Stava ispezionando il fondo per cercare anche qui una via d’uscita, quando qualcuno afferrò la bottiglia e la rovesciò. Così brutalmente rimescolato da cima a fondo, faticò un po’a raccapezzarsi, poi si accorse di essere nuovamente nella bottiglia col buco in fondo, e pazientemente ricominciò pian piano a scappare attraverso quel pertugio.
Ma ben presto si rese conto che tutti i suoi sforzi erano vani, ogni volta veniva rovesciato e doveva ricominciare daccapo, e la storia si ripeté ossessivamente per giorni e giorni. Quando, ormai esausto e rassegnato, si lasciò andare senza più forza , si accorse di scivolare dall’una all’altra bottiglia anche contro la sua volontà, come una sostanza inerte e inanimata.
Poi un giorno all’improvviso sentì vibrare fortemente il vetro e un gran rimbombo intorno, e vide le pareti di quel mondo ondeggiare e cadere.
La bottiglia sussultò e poi cadde in terra frantumandosi in tanti pezzi. Il pugno di sabbia si sparse tutto intorno, mescolandosi e perdendosi tra la polvere e i pezzi di quel mondo crollato. Non ebbe neppure il tempo di raccapezzarsi, perché arrivò una grande ondata di fango e di detriti a spazzare via tutto, trascinandolo sparpagliato in mille granelli fino al mare.
Benché così strapazzato e sbattuto dalle onde, sentì le sue forze rinascere al sapore della salsedine e alla carezza del vento; raccolse ad uno ad uno tutti i suoi granelli e sospinto da un grosso cavallone fu gettato di nuovo sulla spiaggia, dove si distese lasciandosi inumidire dolcemente dalla spuma della risacca.
Arrivò una coppia di giovani a sedersi lì accanto, e sul palmo disteso del pugno di sabbia disegnò un cuore con una conchiglia. Le onde del mare si ritirarono pian piano per non cancellarlo, e il disegno restò inciso fino al tramonto. Nella notte la luna trascinò di nuovo le onde sul bagnasciuga e il cuore si sciolse, ma il giorno dopo arrivarono due bambini, costruirono un castello e in cima modellarono una torre col pugno di sabbia bagnato, che fu felice di respirare di nuovo da lassù il profumo del mare e sentire la carezza del vento.
Morale della favola: un pugno di persone, strappato dalla sua terra, rinchiuso e strapazzato da un bieco carceriere, deve sperare nell'arrivo del terremoto che travolga tutto e riporti la libertà, la pace, la serenità dei cuori e l'amore tra la gente.
martedì 7 dicembre 2010
Il gabbiano, il comignolo e il nido
C’era un gabbiano che era stanco di fare il nido tra le fredde rocce e sugli scogli battuti dal mare, e invidiava le cicogne che facevano il nido sui comignoli, perché avevano sempre la paglia riscaldata dal tepore del focolare. Così volò su una grande isola e quando vide un bella villa con vista sul mare, atterrò sull’alto comignolo per farci il suo nido.
Ma non aveva, come le cicogne, un becco abbastanza grande per trasportare i rami lunghi e le canne fronzute, così i rametti e le paglie gli cascavano ogni volta giù dal camino, e alla fine della giornata, dopo un gran lavoro inutile, gli toccava dormire, in bilico su una zampa sola, sul bordo del comignolo, col rischio di cadere dentro mentre era addormentato.
Poi un giorno incontrò un gabbiano di città, che volava sulle montagne di rifiuti e non conosceva neppure il mare. Lui gli disse che nella discarica che frequentava c’erano dei materiali larghi e molto leggeri, che avrebbe potuto trasportare agevolmente.
Il gabbiano andò su quella discarica e infatti trovò delle lastre di espanso leggerissime, che senza alcuna fatica riuscì a portare sul comignolo per riempire la canna del camino. Poi raccolse altri materiali dalla discarica per completare il riempimento e costruire in cima il nido.
Ma il camino, così tappato, cominciò a far fumo. Il padrone di casa uscì fuori e urlando fece volar via il gabbiano, ma quello dopo un po’ tornava ad appollaiarsi sul comignolo.
Allora l’uomo salì sul tetto, cacciò il gabbiano a sassate e in sole tre ore liberò il camino dalla spazzatura; poi sedette sul comignolo, perché quello era il posto più alto e ci doveva stare solo lui.
Ma alcuni suoi dipendenti invidiosi accesero il camino per scottargli il sedere e costringerlo a mollare il posto. Lui allora saltò giù dal tetto e cacciò via tutti quegli infedeli, e tornò ad intrattenere i suoi ospiti russi ed africani cantando insieme al suo chitarrista di fiducia e alle sue ballerine.
Ma intanto il gabbiano era tornato alla discarica, aveva chiesto aiuto a tutti i suoi simili, e in centomila tornarono tutti in volo sopra quel tetto trasportando una montagna di spazzatura, che scaricarono sulla casa sommergendola completamente. Suonò l’impianto d’allarme , arrivò la protezione civile con le ruspe e l’esercito, ficcò tutta la spazzatura nei compattatori e ne uscirono un centinaio di ecoballe, che vennero messe nei container e spedite sul continente.
Quando la villa tornò alla luce e fu possibile ispezionarla, non fu trovata traccia di esseri umani, ma in tutte le stanze c’era un gran via-vai di gabbiani che attraverso le finestre trasportavano i rami e le foglie del bosco per costruirsi il nido.
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