domenica 30 gennaio 2011

Evanescenze


Eppure ti rivedo
quando frange la luce
sul dorso delle nubi,
e ancora sei presente
nelle gocce di pioggia
e sui profili azzurri
dei monti all’orizzonte,
e tra le felci ombrose
quando scende la notte,
e un albore di luna
s’accende sopra i tetti,
e il vento frulla i ciuffi
sul colmo dei canneti,
e stagna sopra l’acqua
un vapore di nebbia.
Ti vedo nel riflesso
quando brilla il cristallo
della neve assolata,
ti sento come un guanto
che morbido accarezza
quando un soffice gatto
s’arrotola sognando
e tubano le tortore
sui rami degli abeti.
E’ un angolo di cielo
quell’iride che torna
a pilotare i passi
del mio perpetuo errare
tra i miraggi e i fantasmi
di pagine impalpabili.
E’ un eco che riaffiora
dal fondo del tuo nome
quando ai tasti premuti
rispondono le note
e un velluto di rime
imprigiona l’ascolto,
quando schiudo diaframmi
su variopinti petali
e curve lenti infilzano
collane di colori,
immagini vaganti
sul vetro degli schermi.
S’accende e poi si spegne
il faro del tuo volto
tra i lampi dei ricordi
e le notturne veglie,
ma è un volo di scintille
e aldilà del burrone
che s’allarga pian piano
sei cerva che scompare
tra le foglie del tempo.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il pappagallo e la locandiera


C’era un pappagallo che per anni aveva volato per monti e per mari, e anche ora che era vecchio continuava a spostarsi da un paese all’altro, perché non voleva essere catturato e finire in qualche gabbia. Un giorno che si stava riposando su un ramo, sentì provenire un dolce canto dalla finestra di una locanda. Si posò sul davanzale e vide una giovane locandiera che cantava mentre impastava il pane.
Lei lo vide e gli lanciò delle molliche, continuando a cantare in modo così melodioso che il pappagallo, di solito diffidente, non fuggì subito ma restò come incantato ad ascoltarla. Allora la fanciulla tese la sua mano per invitarlo ad entrare. Il pappagallo, accertatosi che non ci fossero gabbie in giro, spiegò le grandi ali multicolori e andò a posarsi in cima alla credenza, temendo che lei volesse afferrarlo.
Ma poi capì che non c’era alcun pericolo, perché lei riprese a cucinare cantando. Ogni tanto lo chiamava esortandolo ad imitare il suo canto, e ogni volta che lui ripeteva quelle parole la fanciulla gli lanciava un bocconcino in premio. Verso sera il pappagallo tornò sul suo ramo, ma non volle allontanarsi e il mattino seguente tornò dalla locandiera, per imparare nuove parole e ricevere il premio.
Le lezioni continuarono anche nei giorni successivi, e alla fine l’uccello aveva imparato più di cento parole e anche qualche motivetto. Lei lo premiava sempre con qualche dolcetto e carezzandogli le piume, così il pappagallo si affezionò alla sua insegnante e ogni mattina la accoglieva recitando una tiritera formata dalle paroline più tenere che aveva imparato.
Un giorno la locandiera gli chiese di accompagnarla mentre serviva i pasti agli avventori della locanda, e di divertirli ripetendo le parole che gli venivano dette. Il pappagallo fu contento di seguirla appollaiato sulla sua spalla, di esibirsi imitando le parole che ascoltava e recitando le sue frasi preferite. I clienti alla fine gli regalavano qualche avanzo e gli dicevano “Bravo, ora dai un bacetto alla tua padroncina” e lui tutto contento pizzicava le gote della locandiera col suo becco adunco. Alla fine c’erano sempre applausi per lui e belle mance per la graziosa cameriera.
Ma dopo qualche tempo il pappagallo capì di servire soltanto a far guadagnare monete alla locandiera senza avere nulla in cambio, si sentì sfruttato e cercò di volar via. Lei lo attrasse ancora con qualche bocconcino, poi gli legò una zampa al posatoio, e quando lui cercò di tranciare la corda col becco lo rinchiuse in una gabbia. La mattina successiva lui si finse morto, e quando la fanciulla aprì la gabbia per prenderlo e seppellirlo, spalancò le grandi ali e fuggì lontano per sempre.
Morale della favola: se sei un pappagallo parlante, variopinto e libero, non farti ingabbiare come uno scialbo merlo e non imitare la bufaga, che l’antilope accoglie sulle sue spalle non perché ama la sua compagnia, ma solo perché è brava a togliere le zecche…

domenica 23 gennaio 2011

Sassi e sabbia


Ho deposto i pensieri
sulla riva di un mare
senza affilati scogli.
Nel tunnel di luce
di un cielo a mosaico
e di nubi filanti
si sfrangiano i volti
di madri, di spose
o forse di amanti,
e piovono schegge
di parole scomposte
dalle forti tempeste.
Sugli occhi non si spegne
l’acuto sfarfallio
di antichi fotogrammi
e i pezzi di memoria
di vita frammentata
come sperduti sassi
limati dalle onde
in sconfinata sabbia.
Un volo di gabbiani
come una spugna umida
sul gesso dei ricordi
e questo tenero
rotolio di risacca
attenua lentamente
il ruvido frastuono
delle porte sbattute.

giovedì 20 gennaio 2011

Transoceanica


Dopo tante favole, è tempo di scrivere anche qualcosa di reale.
Ho appena doppiato il capo dei miei 72 anni, un passaggio che non credevo di raggiungere, se ripenso che qualche anno fa mi avevano dato per spacciato... Per cui il tempo che da allora ho vissuto e quello che ci sarà oltre questo spartiacque è tutto guadagnato e cerco di viverlo come una vita nuova, non ringiovanendo fisicamente perché il corpo va avanti comunque per la sua strada naturale, ma almeno con lo spirito e la mente di uno che ha chiuso i capitoli precedenti del suo libro e, non essendo ancora pronto per l'indice, sta raccogliendo dati, pensieri ed energie per scrivere un'appendice che concluda degnamente la storia.
Ho speso tre quarti della mia esistenza a fare cose che non mi piacevano, e solo ora, con molto ritardo, sto cercando di recuperare, spuntando tutte le note fatte in passato delle idee e dei progetti programmati e mai eseguiti, e pian piano tentando di portarli a termine, se non tutti, almeno quelli che il tempo e le condizioni attuali rendono ancora possibili.
Una delle attività che in questo periodo mi ha più dato stimoli e soddisfazione interiore è stata quella di coltivare con più costanza e applicazione la mia creatività, indirizzandola agli hobbies che ho sempre avuto, in primis alla scrittura, che è sempre stata la mia inclinazione e esercitazione preferita.
Per questo l'anno scorso ho scritto un libro, o meglio un diario di memorie, e anche diverse poesie, molte delle quali presenti in questo blog, composizioni che ho in programma di raccogliere in un'altra prossima pubblicazione.
Ultimamente ho poi intensificato la mia attività in rete, e la frequentazione di un social network come Facebook mi ha dato il vantaggio di incontrare e conoscere amici coi quali è stato piacevole conversare e approfondire tematiche e interessi comuni.
Come contropartita questo tipo di rapporti, solo teoricamente virtuali, mi ha però procurato anche attriti e incomprensioni, spesso sfociate in rotture irrimediabili con qualcuna di queste amicizie, per lo più a causa dalla mia colpevole intemperanza verbale.
Questi incidenti mi hanno ferito, alcuni lievemente, altri più a fondo, ed è proprio per consentire la cicatrizzazione di una di queste ferite che ora ho deciso di sospendere, non so se temporaneamente o definitivamente, i miei commenti in quel salotto mediatico dove ho passato tante simpatiche ore, ma che stava ormai sottraendo troppo tempo al resto dei miei programmi e attività.
Ora mi prendo un periodo di vacanza e di riflessione insieme, senza materialmente partire ma salpando comunque mentalmente per altri lidi. Tornando alla metafora del navigatore, superati gli scogli ho davanti il mare aperto, non so quanto sia vasto né cosa ci sia aldilà. In qualche isola forse mi fermerò per sempre, o forse avrò tempo per fare un lungo giro e prima o poi tornare da dove sono partito.

martedì 18 gennaio 2011

La lumaca e la conchiglia




Questa è una favola dal sapore vagamente autobiografico, salvo il finale che è ancora da scrivere...

C’era una lumaca che non aveva una casa dove ripararsi, e specie d’inverno sentiva molto freddo. Altre lumache avevano trovato da tempo la chiocciola adatta, e quando arrivava il gelo chiudevano la loro porticina e non la riaprivano più fino al ritorno della primavera.
Di solito la lumaca riusciva a sopravvivere raggomitolata nella segatura di un vecchio tronco marcio, ma quell’inverno il tronco era stato tagliato e non c’erano altri ripari adatti in giro.
Allora entrò in un orto e si scavò un tunnel nel cuore di un cavolo, che la riparava ed insieme le procurava cibo. Ma un giorno arrivò un contadino e recise il cavolo, mettendolo in una cassetta con altri cavoli. Poi tutti furono caricati su un camion e portati in un supermercato.
Il cavolo fu acquistato e arrivò nella cucina di una casa di fronte al mare, con un grande giardino, un orto e tanti animali da cortile. La cuoca tagliò il cavolo per cucinarlo, ma quando vide la lumaca lo buttò nella cesta dove raccoglieva gli scarti da dare ai maiali.
La lumaca nella notte scappò dal cesto e si arrampicò su un mobile dove aveva visto delle mensole piene di chiocciole molto belle. Erano conchiglie di mare, e lei si accorse, affacciandosi ad ogni apertura, che ognuna emetteva un suono diverso, quasi una musica, o di onde, o del vento, o di versi di uccelli e mormorii delle foglie. Scelse la conchiglia più bella, con le volute dei suoi tortiglioni più ampie e più lucenti di madreperla. Nell’etichetta alla sua base c’era scritto “Nautilus”. Nelle volte delle sue spirali si sentiva risuonare dolcemente la risacca del mare e questo sottofondo era l’ideale per addormentarsi quando fosse giunto il momento di andare in letargo. Se la caricò sulle spalle e fuggì dalla casa, nascondendosi nel giardino.
Incontrò altre lumache con le loro povere case tutte uguali dai colori smorti, con poche volute e senza musica. Tutte la invidiavano per quella bella casa, anche perché la striscia che lei lasciava dietro era la più brillante e fantasiosa, non andava mai dritta, ma tracciava degli artistici disegni sull’erba.
Ben presto questa casa lucente attrasse l’attenzione di una gazza ladra, che volò sul prato e afferrò col becco la conchiglia, portandosela nel nido. Cercò anche di far sloggiare la lumaca beccandola sulle antenne appena si affacciava, ma lei si ritrasse spaurita in fondo all’ultimo dei giri.
Attratti dallo sfavillio della madreperla, arrivarono anche dei corvi, che si misero a litigare con la gazza per il possesso della conchiglia. Alla fine uno riuscì ad impossessarsene e stringendola in becco volò lontano sorvolando il mare.
Venne una tempesta e il corvo non riuscì a trattenere la conchiglia, che con la sua grande ala prendeva troppo vento, così gli sfuggì dal becco e cadde in mare. Il Nautilus, coerentemente al suo nome, cominciò a navigare con la sua vela ben tesa in alto, finché atterrò su un’isoletta deserta proprio in mezzo al mare. Finalmente la lumaca poté uscire e godersi indisturbata quel paradiso terrestre, vivendo felice il resto dei suoi giorni. E quando, ormai vecchia, venne il momento, lasciò la sua conchiglia regalandola ad un paguro e si tuffò nell’acqua azzurra, dove, tramutata in lumaca di mare, si allontanò nel profondo, pinneggiando flessuosa con le sue cangianti e variopinte ali.

sabato 15 gennaio 2011

Il salto


Sei una faccia sbiadita
su una foto di gruppo
ritrovata tra i sorrisi
di lontani gitanti,
il tuo nome andato perso
tra le pieghe dei ricordi.
Eppure mi tagliasti
in un’ora soltanto
il glicine annodato
da sempre inestricabile
che mi serrava stretto.
Magnetica una sera
e il mio ago
deviato con forza
dal suo nord per cercarti
sotto i convenevoli
di una tavola a tre posti.
Una mano e una scossa,
trafitture di sguardi
mentre spariva il suono
delle parole altrui.
Una voglia a valanga
cresciuta in poche ore,
spire del tuo profumo
sulle labbra di lei
e quella notte prenderne una
come non mai
pensando intensamente
al corpo dell’altra.
Lasciata quella zattera
ho poi inseguito in bilico
su un tronco rotolante
un guado inesistente,
ma c’era una cascata
e il volo è stato un tuffo
in acque senza appigli
e il turbinio mi acceca
la vista ancora adesso.

giovedì 13 gennaio 2011

Il Capitano e il Vagabondo


C’era un uomo seduto su una bitta del molo di La Spezia, con un berretto da marinaio, un vecchio giaccone da lupo di mare ed un piccolo cane accovacciato a fianco. Guardava l’acqua oleosa e sembrava assorto in pensieri profondi, o semplicemente sonnecchiava.
Passò di lì un vagabondo e gli chiese “ Nostromo, chissà quante avventure capitano in mare….”
E lui laconicamente rispose : “Càpitano…” E quello: “ Oh, mi scusi, Capitàno !” Poi aggiunse: “Capitano, sto cercando un imbarco da un pezzo, mi va bene qualsiasi meta e qualsiasi lavoro, anche su una piccola nave, anche su un rimorchiatore, al limite un peschereccio, pur di partire, perché io non posso star fermo, sono un vagabondo e dopo tre giorni di sosta comincio a puzzare come il pesce…Lei per caso ha qualcosa da offrirmi ?”
L’uomo e il suo cane lo guardarono un po’ in cagnesco (più il cane dell’uomo), poi l’uomo indicò un vecchio gozzo ormeggiato poco distante e disse: “ E’ quella la mia nave, e non è neanche messa molto bene… Ma se è per non farti arrugginire, se vuoi ti faccio fare un giro qui attorno, così magari mi viene voglia di buttar giù un paio di lenze col bolentino. Però remi tu perché oggi sono molto stanco…”
Il vagabondo guardò con delusione il piccolo gozzo scrostato e unto che beccheggiava stancamente là sotto, poi con un’alzata di spalle e abbozzando mezzo sorriso, rispose: “Beh, non è questo che intendevo, ma se mi può dare un passaggio fino a quel cargo alla fonda laggiù al largo, magari riesco a rimediare un imbarco decente….”
“Ok, andiamo – disse l’uomo- tutto lì il tuo bagaglio?” aggiunse guardando il bastone con il fagotto in cima del vagabondo. “ Uso sempre un bagaglio leggero, per essere sempre pronto a partire…” rispose quello, poi aiutò il “Capitano” a recuperare il gozzo e ci saltò dentro, iniziando a vogare con forza verso la nave all’ormeggio. Arrivati sotto bordo, il vagabondo prese a gridare per farsi notare da qualcuno dell’equipaggio. Dopo un po’ si affacciarono un paio di marinai, che cominciarono ad urlare in una lingua apparentemente coerente coi caratteri cirillici dipinti sul fianco della nave. A larghi gesti fecero segno di togliersi di torno, e siccome il gozzo indugiava, arrivò più convincentemente una secchiata d’acqua sporca con contorno di cavoli marci e lische di pesce.
Il Capitano e il vagabondo credettero di interpretare che non erano molto graditi. Il primo rispose sputando ostentatamente contro lo scafo, e il secondo urlò: “Su questa sudicia carretta non ci verrei neanche se mi pagate…” tanto per darsi un contegno. Poi ricominciò a remare verso l’uscita del porto, e rivolgendosi al compagno di barca chiese: “ E adesso dove andiamo? Quando un marinaio salpa, non deve tornare mai nello stesso porto” Al Capitano questa massima sembrava una gran stronzata, ma non aveva voglia di discutere e disse: “Beh, se hai voglia di remare ancora, tieniti a dritta che ti porto a visitare le Cinque Terre”.
Così il vagabondo cominciò a remare verso occidente, doppiò lo scoglio di Portovenere e proseguì lungo l’alta costa ligure. Continuava a raccontare dei suoi viaggi, tanto a lungo che il Capitano si addormentò di nuovo. Non avendo altri uditori, il vagabondo si rivolse al piccolo cane, elencandogli tutte le razze della sua specie in ordine alfabetico, dall’alano al volpino. Sfinito, anche il piccolo cane, che non per nulla si chiamava Morfeo, cadde addormentato.
Giunsero ad una spiaggetta dove il cane e il suo padrone vollero scendere per il mal di mare che avevano, anche col mare calmo, per i racconti del vagabondo. Da lì partiva un sentiero che si arrampicava fino al borgo di Campiglia. Il vagabondo, che aveva visitato tutti gli angoli di mondo, cominciò a narrare tutta la storia di Tramonti-Campiglia, dalle origini ai nostri giorni. Inoltre disse che in cima c’era un ristorantino dove si potevano gustare dei prelibati piatti di pesce innaffiati da un ottimo Sciacchetrà, ed elencò tutto il menù dall’antipasto al dolce.
Il Capitano disse subito che a fare la salita lui non ci pensava neppure, ed anche Morfeo annuì. Chiamò col cellulare una sua amica normanna e le chiese di venirlo a trainare col suo gommone, perché era troppo stanco per remare al ritorno. Ma l’amica era impegnata a pescare e non poteva venire subito, così il Capitano chiamò un’altra sua amica che di solito passeggiava lungo un vialetto di quel monte, ed ella rispose subito all’appello: “Capitano, mio Capitano, arrivo subito e schettinando veloce ti porto su fino a quella casetta che ti piace tanto, dove potremo goderci insieme il panorama e cogliere insieme tanti papaveri, con la splendida vista del mare luccicante fino alla Gorgona”.
Il Capitano accettò subito l’allettante proposta, prese in braccio Morfeo e diede la mano all’amica, che pattinando rapida lo trascinò in cima alla montagna come agganciato ad uno skilift.
Il vagabondo, sentendosi un terzo incomodo, disse che conosceva a memoria tutta la mappa dei sentieri locali, e che ne avrebbe approfittato per farsi una traversata appenninica, raggiungendo la via Francigena, per fermarsi dalle parti di Fornovo, dove conosceva un ristorantino che serviva dell’ottimo culatello, ed elencò a memoria tutto il menù ed anche tutta la lista dei vini. Poi partì e se ne persero le tracce. Pare che qualche mese più tardi venisse arrestato per vagabondaggio.
Il capitano e la sua amica raggiunsero l’incantevole casetta a picco sul mare, dove lui non vedeva l’ora di appartarsi per farle ascoltare tutte le 38 sinfonie di Mozart e farle vedere tutti i suoi documentari girati sulle balze tramontiane ed i golfi spezzini.

martedì 11 gennaio 2011

Il girasole e le nuvole


C’era un bambino che aveva raccolto un seme in un grande campo di girasoli e l’aveva messo a germogliare in un vasetto sulla finestra della sua cameretta. Appena nato, il piccolo girasole si era guardato attorno e non aveva visto neppure una pianta uguale a lui, da cui imparare come crescere e cosa fare da grande. Vide che il bambino aveva fatto germogliare sullo stesso davanzale altri fiorellini diversi da lui, e tutti guardavano fuori dalla finestra, ma lì sotto non passava mai nessuno, così il girasole per non annoiarsi durante il giorno seguiva i giochi del bambino, restando girato verso la stanza. Quando fu grande e più alto di tutti gli altri fiori, capì che il bambino non voleva che lui lo fissasse sempre con quella grande corolla, perché veniva spesso a girare il vaso in modo che fosse costretto a guardare fuori.
Passarono le settimane: il girasole era cresciuto così tanto da picchiare il capo sopra la finestra e il vaso era diventato troppo stretto per le sue folte radici. Una volta che il bambino si era ammalato e non aveva potuto innaffiarlo lui era quasi morto di sete. Allora il bambino lo prese e lo portò all’aperto, trapiantandolo nel terreno umido vicino ad uno stagno, in modo che non soffrisse mai la sete.
Nello stagno c’era un bel fiore di loto che galleggiava sull’acqua, e vedendo il girasole sempre fisso gli disse: “ Se io avessi un bel collo lungo come il tuo, mi girerei sempre attorno a guardare il sole, e lo potrei seguire anche quando al mattino e alla sera è basso sull’orizzonte. Invece sono sempre costretto a guardare in alto nel cielo, e se c’è anche una sola nuvola il sole non lo vedo.
Il girasole capì di essere più fortunato di tanti altri fiori, girò il capo e cominciò a seguire il sole durante il suo tragitto nel cielo, ma dopo un po’arrivò una nuvola e oscurò il sole.
Lui aspettò che la nuvola si spostasse, invece ne arrivarono altre e il sole sparì del tutto. Allora capì che era inutile avere una corolla così grande e un collo così lungo se tra lui e il sole c’erano le nuvole. Chiese al fior di loto cosa si potesse fare e quello gli raccontò che talvolta alcuni fiori di loto venivano raccolti dalle fanciulle per ornare i capelli e che alcune di queste fanciulle volavano su dei grandi uccelli d’acciaio, così in alto da superare le nuvole e vedere sempre il sole, addirittura da rincorrerlo anche di notte.
Il girasole cominciò a sognare di essere raccolto da una di queste fanciulle, ma tutte quelle che vedeva passare avevano il capo troppo piccolo per poter essere ornato da un girasole.
Allora si rese conto che lui non sarebbe mai potuto andare in cielo, sopra le nuvole, e guardare sempre il sole, e si sentì triste ed inutile. Piegò il capo piangendo verso lo stagno, ma improvvisamente vide le sua immagine riflessa nell’acqua e si accorse che il sole non era sparito, era là nell’acqua che lo guardava, era sceso dal cielo solo per lui e non c’era neppure bisogno di cercarlo in giro, perché era sempre immobile nello stesso punto, bello e splendente con tutti quei raggi e il grande cerchio centrale.
Così il girasole visse felice specchiato nella sua immagine per tanti giorni ancora, e quando appassì si lasciò cadere nello stagno per restare per sempre in braccio al suo sole.

sabato 8 gennaio 2011

Valentina


Ricordo il tuo bel viso
quand’eri addormentata
come dolce bambina
cullata dalle onde,
e la barca filava
verso l’isola amata
e invidiavo quel vento
che spandeva carezze
sulle vesti leggere.
Le tue corse sfrenate
contrastanti il tuo nome
sulle lingue di sabbia
dell’atollo lontano,
e le risate allegre
finché non ti prendevo
per strapparti le pinne
che mi avevi rubato,
e gli spruzzi giocosi
per sfuggire alla presa
come anguilla oleosa,
e il tuo fiore di donna
sbocciato in pieno sole
che spiavo con l’occhio
del mio nero obbiettivo
mentre spargevi il mare
dei tuoi capelli al vento.
L’ ingenua tua malizia
di porgermi la nuca
per allacciare un piccolo
rosario di conchiglie,
forse un invito tacito
a porvi sopra un bacio,
ma eri così giovane
e son sempre restato
legato a quello scoglio
del doppio dei tuoi anni.

venerdì 7 gennaio 2011

Inguaribili


Che cronica degenza
su queste due barelle
del nostro corridoio
dalle camere chiuse,
a fianco e forse liberi
da quella soffocante
camicia sempre doppia
di forza e di piacere,
ma sempre avviluppati
ancora tra le spire
dello stesso serpente.
Tu che le fasce da mummia
io srotolo ogni giorno
senza trovarne il capo
per vederti più nuda
e toccare le pieghe
delle tue cicatrici,
io che le bende insisto
a gettare strappate
perché le mie ferite
guariscano più in fretta
e tu che le riavvolgi
credendo di sanarmi
e invece imputridendo
di nuovo le mie piaghe.

giovedì 6 gennaio 2011

La Befana ed il trenino


C’era una Befana che era stanca di andare in giro a cavallo di una scopa, senza neppure un parabrezza che la difendesse dall’aria fredda di Gennaio e un cestino dove tenere il sacco dei doni che le pesavano sempre più sulle spalle. E poi quel mezzo era troppo lento, spesso arrivava sui camini di molte case in ritardo, e i bambini restavano delusi ad attendere con le loro calze vuote.
Avrebbe voluto andare più veloce di tutti i mezzi terreni, e fare il giro del mondo in un solo giorno. Una notte sognò addirittura un veicolo extraterrestre, un razzo dove potesse entrare vestita con una tuta da astronauta anziché con i suoi vecchi stracci, e salire con quel mezzo fino in cielo, per portare i regali anche ai bambini che erano già andati in paradiso senza averla mai potuta aspettare.
Così il 6 Gennaio buttò la sua scopa ormai spelacchiata e scese in una strada dove dei ragazzi stavano sparando alcuni petardi avanzati dall’ultimo dell’anno, e chiese loro dove li avessero comprati. Loro le dissero che al botteghino delle montagne russe del Luna Park c’era un uomo che li aveva portati in un magazzino abusivo, dove venivano fabbricati e venduti illegalmente i petardi e i botti più fragorosi e pericolosi di tutto il paese.
La Befana andò al Luna Park, si fece portare dall’uomo al deposito, poi lo addormentò con un vino drogato e portò via con un carretto tutti i fuochi e i botti più potenti nascosti in quel magazzino.
Tornò al Luna Park, sganciò il trenino delle montagne russe e riempì l’ultimo carrello con tutti quei fuochi d’artificio. Poi andò al baracchino del tiro a segno, comprò tutti i balocchi, le bambole e gli orsacchiotti che c’erano e riempì gli altri carrelli con tutti quei doni.
Infine accese le micce, si mise alla guida del primo vagoncino e il trenino partì come un razzo, lasciando una scia luminosa nel cielo, brillante come la cometa che il giorno di Natale era arrivata sul presepe di ogni bimbo.
Così la Befana riuscì a fare il giro di tutte le case in un sol giorno, lasciando cadere nei camini i doni per riempire le calze dei bambini, compresi quelli un po’discoli , mentre il carbone lo riservò solo ad alcuni grandi, che non erano affatto buoni, e che di carbone ne avrebbero meritato un vagone.

Oltre la curva


Avevo gli occhi chiusi
e lo specchietto rotto
del mio retrovisore
per leggere al contrario
sui vetri appannati
delle tue buie frasi,
e i numeri spariti
sul pomolo del cambio.
Alla cieca i miei piedi
sui pedali invertiti,
rattrappite le mani
su un volante di marmo,
una strada di nebbia
le pieghe del tuo viso
e sequenze di curve
tra le tue parole.
Aspettando l’impatto
della porta sbattuta
dal turbine dell'ira
ho rivisto in un attimo
un anno di evasione
dalle mie torte briglie
seguendo le vele tese
delle tue vesti al vento.
Ora c'è solo silenzio
e al buio non distinguo
se sei ancora dentro
quella porta richiusa
o oltre quei battenti.

martedì 4 gennaio 2011

Capodanno


C'è mai stato o ci sarà un 31 Dicembre come questo ?

Crepitio di petardi
e fuochi negli occhi,
è solo un fermo immagine
con l'audio azzerato
sullo schermo piatto
del mio stare in attesa.
Scorrono i bagliori
senza tuono
dell'anno che muore
lontano in oriente,
mentre aspetto i rintocchi
dell'ultima ora
e uno squillo che arrivi
a ridarmi corrente.
Vedo l'onda come un'ola
propagare la festa,
è una miccia che brucia
sul dorso dei fusi.
Ecco il primo brillio
con la salve di scoppi
e un mare di scintille
che piove dai balconi
e le girandole colorano
la retina abbagliata.
Scappano sui muri
ombre di cani e gatti
e volano le schegge
dei piatti frantumati
nel buio dei cortili.
C'è un tappo mai saltato
e candele mai accese
sul mio tavolo vuoto,
e un fiotto di spumante
che resta nei ricordi.
Rivedo la sequenza
di foto in digitale,
incrocio di bicchieri
tra le nostre due mani
e uno scambio di baci
di cui ho perso il sapore.
Seduto alla finestra
vedo stelle filanti
di auto a luci rosse
e un'eco di granate
ormai sempre più rado.
Accendo ancora i fosfori
dell'ora sul mio polso
mentre langue la notte
sulla mia veglia inutile,
ma tace il mio telefono,
non vibra il cellulare,
è nato un nuovo anno,
è morto il mio sperare.