Ho rischiato diverse volte la pelle, ma questa è la volta che ci sono andato più vicino...
Era tempo che sognavo
una moto giapponese
e alla fine coi risparmi
me la sono conquistata:
bella, nuova e rilucente,
un bel rombo del motore,
la ripresa assai potente,
e montarla un godimento
come quando fai l’amore.
La lanciavo in tangenziale
per andare a lavorare
e attirava come miele
le colleghe in aeroporto.
Quante corse a tutto gas
sui viali all’idroscalo
col sellino condiviso
e due mani in vita strette
di una bionda senza casco,
poi la fine della corsa
su un bel prato del laghetto.
Venne il giorno che scendevo
dal Turchino a tutta birra,
cento curve a cento all’ora
e alla fine un rettilineo
per sfrecciare giù in pianura,
ma poi c’è l‘ultima curva
veramente inaspettata.
Troppo tardi la frenata:
la mia moto decollata
e volata a deformare
la barriera del viadotto,
poi con giri rimbalzata
sull’opposta carreggiata;
io sbalzato a rotolare
sull’asfalto già intasato
dal vicino ferragosto.
Graffi e strappi casco e tuta,
solo botte e contusioni
ma la pelle conservata,
e la moto malridotta
come coccio trasportata
da un furgone di soccorso.
Da quel giorno le due ruote
ho per sempre abbandonato
e talvolta se rifaccio
al volante quella curva
passo in terza ripensando
a quel giorno fortunato
quando in ciel non sono andato
ma soltanto sul selciato.
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