giovedì 21 ottobre 2010
To be or not to be
Quando mi capita di seguire in TV dei films o telefilms americani, o ascoltare dei testi di canzoni in inglese, mi prende lo sconforto, perché capisco solo un quarto di quello che dicono, nonostante i miei anni di corso di questa lingua e la lungua pratica operativa in un'azienda americana dove parlare l'inglese era un requisito indispensabile.
Mi rendo cioè conto di quanto sia diverso capirlo e parlarlo a livello commerciale e lavorativo dalla comprensione della veloce parlata comune, magari con le inflessioni dialettiche dello "slung".
In queste occasioni mi torna in mente la situazione d'incubo del mio primo impatto con questa lingua, quando, studentello del liceo, andai ospite di una famiglia inglese nei sobborghi di Londra. In teoria avrebbe dovuto esserci, a superare gli impacci e favorire la comprensione linguistica, la figlia mia coetanea di quella coppia. Ma Joan, così si chiamava, in quei giorni era ancora in collegio,e io mi ritrovai, all'arrivo, seduto in salotto davanti a due austeri genitori che aspettavano da me una fluente dissertazione nella loro lingua, per presentarmi e illustrare il mio paese e la mia vita. Conoscendo a stento la prima declinazione del verbo essere e bloccata dall'emozione anche la reminiscenza di quelle quattro parole imparate ascoltando Elvis o Frank, il mio mutismo divenne a tal punto imbarazzante che la padrona di casa venne a mettermi in mano un dizionarietto d'inglese.
A quel punto mi paralizzai del tutto e le uniche due parole che riuscii a partorire furono "Good night", quindi mi alzai e me ne andai a letto.
Fortunatamente dopo tre giorni arrivò Joan e la familiarizzazione con la lingua, non solo con quella dell'idioma, progredì in maniera esponenziale....
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