martedì 26 ottobre 2010
Una giornata al mare...
Tornando alle mie avventure da subacqueo, devo dire che altre due volte ho rischiato di finire i miei giorni disperso in mare. Oggi voglio ricordare quel giorno alle Dalhak, un arcipelago del Mar Rosso difronte all'Eritrea.
Il viaggio era iniziato già abbastanza inquietante scendendo da Asmara, posta su un altopiano, per arrivare a Massaua, sul mare. Poiché andare via terra era proibitivo per le bande di predoni, il nostro gruppo scelse quello che eufemisticamente si può chiamare aerotaxi, in realtà un catorcio di bimotore che andava solo perché eravamo in discesa, ma che ho il sospetto venisse poi rottamato all'arrivo, come altri suoi simili, senza mai tornare indietro... Ricordo che il pilota, rigorosamente a piedi scalzi, aveva dovuto scacciare a calci una gallina che, sfuggita dalle varie gabbiette poste elegantemente sopra le nostre teste, era finita starnazzando in mezzo alla pedaliera.
A Massaua ci informarono che il nostro "Hotel" era stato temporaneamente chiuso per un'infezione colerica, così alloggiammo in una stamberga ancor più fatiscente dell'aereo, con la "hall" piena di capre e un beduino che alla "reception" consegnava, oltre le chiavi, una specie di carta moschicida da appendere al muro, un candeliere smoccolato e una brocca d'acqua. La stanza sembrava la cella del Conte di Montecristo e le lenzuola sulla branda ospitavano cortei di formiche, probabilmente in caccia di altri inquilini meno visibili all'occhio.
Dopo una nottata passata su una sedia, andai a lavarmi la faccia in mare, evitando anche prudentemente di far la colazione inclusa nel "bed & brekfast", consistente in una tazza di latte spillato fresco direttamente dalle capre.
Più tardi, insieme agli altri, ci imbarcammo su una delle barche a motore usate dai locali per la pesca e per portare i turisti alle Dahlac. Queste isole sono 360, quindi c'è l'imbarazzo della scelta. Non so ora, ma allora erano tutte disabitate, e la maggior parte poco più grandi di uno scoglio, aride e brulle. Ma sotto la superficie, il mare è di una ricchezza di forme e di colori incredibile.
Mentre gli altri cacciavano, io ho cominciato a far foto, e, come al solito, un pò per indisciplina e un pò perché distratto ed attardato dalle soste per cercare le inquadrature migliori, lentamente mi sono allontanato dal gruppo, trasportato dalla corrente. Mi sono prima accanito ad inseguire una tartaruga, poi una grossa cernia maculata, e quando ho rialzato la testa dall'acqua non ho più visto nessuno, neppure la barca d'appoggio. Prima che la corrente mi trascinasse ancora più lontano, mi sono arrampicato su uno scoglio affiorante e poi sulla lingua di sabbia retrostante, probabilmente una delle 360 isole. Era poco più grande di quelle che si vedono sulle barzellette dei naufraghi, ma senza la palma, solo sabbia, scogli e grossi granchi con i loro occhietti peduncolati che mi scrutavano curiosi.
Vista la situazione conclusi che avevo scarse probabilità di ripetere l'avventura pluriennale di Robinson Crusoe, tenuto conto che avevo già una gran sete e fame, e di soccorrevoli Venerdì nei paraggi non se ne vedevano.
Tolta la muta, mi sono arrostito al sole per cinque ore sperando che mi ritrovassero.
Finalmente, quando già il sole era al tramonto e mi preparavo ad un'altra notte agitata, con la variante dei granchi al posto delle cimici, vidi una barca all'orizzonte. Saltato in piedi, cominciai a roteare sopra la testa il pallone rosso da sub sperando che mi vedessero, e mi sentii rinascere quando vidi la barca puntare diritta nella mia direzione.
Inutile dire che, una volta imbarcato, dovetti subirmi a lungo le imprecazioni incomprensibili dei barcaioli, più quelle dei miei compagni nelle varie lingue e dialetti italici...
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