venerdì 31 dicembre 2010
Il cardellino e il calendario
C’era nel bosco un cardellino nato nel nido in una calda primavera. Ma un giorno dei cacciatori di frodo misero una rete e catturarono i suoi genitori. Lui rimase abbandonato nel nido, non sapeva ancora volare e quando si sporse per cercare di catturare un moscerino, cadde dal nido ai piedi dell’albero. Restò sul terreno ad emettere dei pigolii lamentosi sperando che tornasse la sua mamma a riprenderlo, invece arrivò un gatto e stava per afferrarlo, quando apparve la fatina del bosco, lo toccò con la sua bacchetta e lui riuscì miracolosamente a volare. Il cardellino ringraziò la fatina di averlo salvato e le promise che un giorno sarebbe tornato e le avrebbe portato un regalo per sdebitarsi.
Così poté tornare al suo nido, procurarsi il cibo e crescere. Divenne grande e bello, fiero del suo piumaggio e invidiato dagli altri uccellini per i suoi colori sgargianti. Si accoppiò con diverse cardelline ed ebbe anche tanti piccoli cardellini che aiutò a crescere e diventare indipendenti. Visse parecchi anni e diventato vecchio restò solo. Faceva fatica a volare e a procurarsi da mangiare.
Venne una notte di Capodanno che faceva molto freddo, c’era ancora neve sui campi e il cardellino non sapeva dove passare la notte perché aveva fame ed era molto spaventato dagli scoppi dei mortaretti e dei fuochi d’artificio.
Così entrò di nascosto da una finestra della casa dove abitava un boscaiolo, volò sull’orologio a cucù e quando l’uccellino di legno uscì per fare il suo verso, entrò nella casetta e si sistemò in un angolo, lasciando lo spazio all’uccellino ogni volta che rientrava. Quando questo usciva per ripetere il suo verso, anche il cardellino ne approfittava per andare a rubare qualche mollica sul tavolo della cucina.
Durante il primo giorno si rese però conto che quel riparo era troppo scomodo, perché la porticina si apriva solo una volta ogni ora, e se non si sbrigava a rientrare restava chiuso fuori, oppure rientrava ma non poteva più uscire fino all’ora successiva. Allora scoprì una fessura nella botola che portava in soffitta e si trasferì nel sottotetto. Lì dentro faceva più freddo, ma in compenso c’era un varco tra le tegole per poter uscire nelle giornate di bel tempo.
Il giorno dopo il cardellino vide il boscaiolo che staccava un foglietto con il numero uno dal calendario e lo gettava in un cestino. Poi lo vide tirar fuori da un cassetto altri foglietti con dei numeri, e quando venne il garzone del panettiere a suonare alla porta, lui gli diede alcuni di quei foglietti in cambio di una pagnotta. Il cardellino capì che si potevano usare i foglietti con i numeri per procurarsi del cibo, magari non solo pane ma dei chicchi di miglio e di altre granaglie di cui era ghiotto. Così volò a recuperare il foglietto con numero uno dal cestino e lo nascose in soffitta. E così fece anche l’indomani e anche nei giorni successivi. Ogni volta che il boscaiolo staccava e gettava un foglietto, lui lo raccoglieva col becco e lo portava nella soffitta.
Dopo una settimana pensò di avere abbastanza numeri per procurarsi qualche bel chicco di miglio, ma non sapeva a chi portarli per fare uno scambio. Allora si ricordò della fatina e della promessa che le aveva fatto. Tornò nel bosco e cinguettò finché la vide apparire sotto un abete. Le chiese se poteva donarle i suoi foglietti in cambio di un po’ di granaglie. La fatina sorrise e gli rispose che i suoi numeri erano troppo pochi per essere scambiati con del cibo, ma che potevano valere molto di più se lui avesse continuato a raccoglierli con costanza e glieli avesse portati tutti insieme alla fine dell’anno.
Così lui andò avanti a raccogliere puntualmente i foglietti del calendario, senza saltare neppure un giorno, e per tutto l’anno si contentò di pasti frugali, rubando qualche mollica nella casa e trovando qualche vermicello nell’orto.
Venne l’ultimo dell’anno e il cardellino voleva rispettare il suo appuntamento, ma gli mancava l’ultimo foglietto del giorno. Allora volò a staccarlo senza aspettare il boscaiolo, poi raccolse col becco un mazzetto di foglietti e li portò nel bosco, e così avanti e indietro con tantissimi viaggi finché non ebbe trasportato tutti i foglietti sotto l’abete della fatina.
Lei sommò tutti i numeri dei foglietti e disse al cardellino che aveva accumulato 5738 giorni, e che poteva scegliere se cambiarli in altrettanti chicchi di miglio, oppure trasformarli in un regalo molto più bello ed prezioso. Lui al momento, ingolosito, stava per scegliere il miglio, poi per curiosità chiese in cosa consistesse l’altro regalo.
La fatina gli spiegò che, per magia, lei poteva trasformare ogni singolo giorno di quel calendario nel miglior giorno che lui avesse finora vissuto, per rivivere cioè un anno fatto dei migliori giorni di sempre. Ad esempio il primo gennaio sarebbe stato il miglior primo gennaio di quelli precedenti, quello dove aveva trovato più granaglie, o cacciato più moscerini, o cantato meglio, o fatto all’amore, e così via per il due gennaio e tutti i giorni restanti.
E avrebbe potuto spenderlo da subito o quando volesse, perché gli avrebbe anche donato una vecchiaia lunghissima, una longevità come quella dei pappagalli.
Il cardellino non ci pensò due volte e accettò subito la seconda proposta. Allora la fatina toccò tutti i foglietti con la sua bacchetta e questi magicamente si ricomposero in un bel blocchetto, un anno meraviglioso che il cardellino avrebbe potuto iniziare a vivere già dal giorno dopo. Poi la fatina gli trovò un bel nido nel cavo del tronco dell’abete, dove appese il calendario, e il cardellino decise di iniziare a sfogliare il suo anno più bello fin dal giorno dopo, e visse felice per tanti anni ancora.
domenica 26 dicembre 2010
L'albero e il Natale
C’era un piccolo abete che cresceva rigoglioso e svettante nel bosco della montagna, accanto ad altri grandi e altissimi abeti e al loro riparo. Ma un giorno venne un boscaiolo e con l’accetta lo tagliò alla base, portandolo poi piangente di resina al mercato del paese.
Fu comprato dalla famiglia del farmacista e inchiodato su una tavoletta, messo in piedi in salotto e poi inghirlandato con festoni argentati, ornato con stelle e luci e tante palle multicolori appese ai suoi rametti aghiformi. Ai suoi piedi vide posare tanti pacchetti infiocchettati che la mattina di Natale i bambini vennero ad aprire con gridolini di gioia.
C’era una gran aria di festa in tutta la famiglia, ma il piccolo abete soffriva per la sua ferita e soprattutto aveva sete. Allora cominciò a scuotere leggermente i suoi rametti finché riuscì a far cadere un paio delle palle decorate, che caddero a terra in mille pezzi.
Sentì dire al farmacista che forse l’albero si stava seccando, poi lo vide versare qualcosa in un vaso d’acqua e si sentì immergere il tronco mozzato in quel liquido. Bevve con avidità e attraverso le sue vene spinse quella linfa a dissetare tutti i suoi rami.
Ma dopo pochi giorni l’acqua era finita e nessuno sembrava più preoccuparsi della sua sete. Allora fece cadere altre palle, piegò la punta per far cadere anche la stella luminosa che c’era in cima, e cominciò anche a staccare parecchi aghi dai suoi rametti e a riempirne il pavimento.
Venne il farmacista, e invece di portargli altro liquido nutriente, lo spogliò completamente da tutti gli addobbi, poi lo trascinò in fondo al giardino e preparò un fuoco per bruciarlo.
L’abete non voleva morire, così con le sue ultime forze sprigionò dalle sue fibre quella corrente elettrica che aveva visto usare dai grandi abeti per attirare i fulmini, e quando il farmacista stava per afferrarlo e gettarlo tra le fiamme, si sentì una grande scarica tra le nubi e una guizzante saetta di fuoco colpì in pieno l’uomo carbonizzandolo.
Ci fu una gran confusione, venne parecchia gente a portar via il cadavere e il piccolo abete restò abbandonato sul suo mucchio di sterpi senza che nessuno si curasse più di lui.
Nella notte piovve e la torba si impregnò d’acqua stimolando la ricrescita di tenere radici alla base dell’abete, che pian piano riprese forza abbarbicandosi al terreno.
Passò un anno, arrivò il Natale e il piccolo abete cominciò a tremare al pensiero che venisse qualcuno a tagliarlo di nuovo, dopo che per mesi aveva sopportato il cagnolino di casa che veniva a innaffiargli di pipì il tronco. Invece vide uscire i bambini del farmacista con le scatole degli addobbi, e in breve fu stupendamente adornato da capo a piedi, e riempito di lampadine che illuminavano la notte come piccole stelle lampeggianti.
Il piccolo abete crebbe rigoglioso e felice di risplendere ogni anno in quel giardino per la gioia dei bambini. Passarono gli anni, divenne il più grande albero del quartiere e anche i bambini crebbero , si sposarono e lasciarono quella casa.
Un giorno arrivò il sindaco a parlare con la moglie del farmacista, e decisero che per fare l’albero di Natale sulla piazza era molto più conveniente prendere quell’abete piuttosto che trasportarne uno dalla montagna. Così arrivarono i giardinieri del Comune, e in quattro e quattr’otto il povero abete fu tagliato, inchiodato su una pedana e innalzato in mezzo alla piazza principale del paese.
Il vecchio abete, ormai avvilito e quasi morto di sete, non ebbe neppure più la forza di reagire e provocare con la sua attrazione il fulmine. Ma spontaneamente il cielo, per punire gli uomini che non rispettano gli alberi e, invece di lasciarli vivi in vaso, li tagliano per Natale, scatenò un grosso temporale e un tremendo fulmine si scaricò sul grande abete bruciandolo completamente.
martedì 21 dicembre 2010
La rosa e le labbra
C’era una rosa rossa, appena sbocciata e consapevole del suo fascino. Non voleva sfiorire prima che il suo profumo fosse inalato e inebriasse qualche umana bellezza. Allora si lasciò suggere da una farfalla e le impregnò le ali col suo profumo. La farfalla volò sulle case cercando un altro bel fiore e vide una fanciulla seduta sulla scaletta del carrozzone di un saltimbanco, mentre rammendava la veste con cui ogni giorno ballava sulle piazze dei mercati. La farfalla batté le ali sui suoi biondi capelli il profumo scese come un velo invisibile a inebriare le nari della fanciulla, che sentì il desiderio di cercare la rosa da cui veniva quel buon profumo.
Così fece odorare le trecce alla sua cagnetta Ruby e le disse di seguire le tracce di quell’essenza sparse nell’aria. Il cane si diresse verso la reggia del re, la ragazza arrivò al cancello e chiese di entrare, ma le guardie le dissero che era impossibile. Lei però si mise ad aspettare, finché vide il re uscire dal suo palazzo per andare a caccia, seguito dai suoi fedeli scudieri.
Quando il cancello si aprì e uscì il re a cavallo col suo seguito e i suoi cani, la bastardina Ruby si mescolò abbaiando alla muta dei bracchi e la fanciulla corse in mezzo al corteo per recuperarla. Il re la vide e le chiese chi fosse e cosa facesse davanti alla sua reggia. Lei rispose che era una ballerina e che cercava una rosa del suo giardino, una rosa forse fatata, perché aveva sognato che odorandola poteva trasformarsi in una principessa. Il re si mise a ridere, ma incuriosito e anche attratto dalla bellezza della fanciulla, disse alle sue guardie di farla passare per andare nel suo giardino.
Lei entrò e seguendo il suo cane riuscì presto a trovare la rosa rossa, ma non la colse per paura di essere sgridata. Ne strappò solo qualche petalo, e lo portò alle labbra per tingerle di rosso e impregnarle col suo profumo.
Quando tornò al cancello per uscire, le guardie la trattennero per ordine del re, e nonostante le sue proteste la scortarono con la sua cagnetta nel palazzo e le dissero di prepararsi per intrattenere il re quando fosse tornato. Lei sapeva solo danzare e aspettò il re nelle sue stanze per fare un bel ballo insieme alla sua Ruby.
Quando il re tornò dalla caccia, aveva con sé altre ballerine per riempire tutte le sue stanze, poi vide la fanciulla e si ricordò del suo sogno. Allora le disse di ballare e poi le chiese se aveva trovato la rosa e se l’aveva odorata. Lei rispose che ne aveva il profumo sulle labbra. Allora il re le disse di venire a baciare il re, così sarebbe diventata una principessa. La fanciulla ubbidì e andò a baciare il re, ma lui voleva molto più di un bacio e le strappò la veste gettandola a terra e facendole violenza. A questo punto la cagnetta Ruby saltò addosso al re e gli morse violentemente l’inguine. Il re arrabbiatissimo chiamò un suo fedele scudiero e gli disse di cacciar via la fanciulla e chiamare l’accalappiacani per portar via quella bastarda di Ruby.
La fanciulla tornò al suo carrozzone e piangendo narrò la sua disavventura al saltimbanco, che minacciò il re di andare dai magistrati a raccontare tutto. Allora il re, per farsi perdonare e non avere grane, mandò una delle sue favorite al canile per far liberare Ruby, che tornò dalla sua padroncina, ancora in lacrime per la perdita del cane e della virtù.
Il re, per non farla più piangere, le mandò una collana di smeraldi e anche un collarino di rubini per Ruby. Così la fanciulla smise di piangere, perché …” sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re…”
mercoledì 15 dicembre 2010
Il pirata e la cicala
C’era un pirata che tiranneggiava tutti i mari veleggiando e razziando col suo galeone.
Era molto temuto dal suo equipaggio, e se qualcuno si azzardava a fiatare, sfilava un budello di porco che teneva attorno alla vita come cintura e lo frustava senza pietà.
Un giorno una cicala venne a posarsi sull’albero maestro e cominciò a frinire ininterrottamente. Il pirata cercò di colpirla col suo scudiscio, ma quella volava più in alto e ricominciava.
Furioso, il pirata ordinò ad uno dei suoi uomini di arrampicarsi sull’albero e di catturare la cicala con un retino, poi afferrò l’insetto e gli strappò le ali, gettandolo poi in mare. La cicala si salvò su un rametto portato dalla corrente e arrivò a terra, e anche se non poteva più volare e cantare, vibrando con le sue antenne radunò tutte le cicale dell’isola e le spinse alla vendetta contro il pirata.
Colti da un’improvvisa febbre riproduttiva, i chiassosi insetti si moltiplicarono come milioni di bollicine di una schiuma che in breve ricoprì l’isola e poi volò sul mare.
L’aria era scura come sotto un temporale, perché il grande sciame nascondeva il cielo. Le cicale raggiunsero il veliero e lo invasero completamente. Tutte le vele e le strutture del ponte sembravano briciole piene di formiche, e anche gli uomini dell’equipaggio si contorcevano ricoperti di cicale .
Il frastuono era terribile, come mille seghe elettriche tutte in funzione, e tutti erano costretti a turarsi le orecchie per non impazzire.
Gli uomini cercavano scampo sottocoperta , ma di ora in ora il veliero sembrava sempre più un colabrodo tuffato nell’acqua: le cicale filtravano da tutti i buchi e non si riusciva più a contenerle.
I marinai, sfiniti dalla lotta, cedevano ad uno ad uno come alberi avvolti dalle fiamme, e molti si gettavano in mare per non soccombere.
Il pirata restò per ultimo, non perché volesse affondare con la sua nave, ma perché voleva salvare tutti i suoi tesori. Trascinò un enorme scrigno sul ponte, però era troppo pesante per caricarlo da solo su una scialuppa, allora calò il battello in mare e poi con una carrucola cercò di far scendere lo scrigno. Ma le cicale lo accecavano, mollò la fune e lo scrigno sfondò la scialuppa finendo in fondo al mare.
Vistosi perduto, il pirata saltò fuori bordo, poi raggiunse a nuoto la scialuppa semiaffondata, la ribaltò e si nascose sotto per sfuggire alle cicale. Quelle però entrarono dallo squarcio fatto dallo scrigno e riempirono rapidamente quel riparo.
Il pirata allora sfilò dalla cintura il budello di porco, ci soffiò dentro per gonfiarlo, poi si immerse e cercò di usarlo per respirare stando sott’acqua, ma una cicala, attraverso quel tubo, gli entrò giusto in gola soffocandolo.
Le cicale, preso possesso di tutto il veliero, lo lasciarono navigare libero nel mare e da quel giorno il loro frinire smise di essere un cicaleccio assordante: chi incrociava il veliero sentiva soltanto un melodioso coro, come se a bordo ci fossero tanti marinai che cantavano insieme la loro libertà.
lunedì 13 dicembre 2010
La clessidra e la sabbia
C’era un pugno di sabbia che viveva felice in riva al mare, pettinato dal vento, accarezzato dalle onde che lambivano la battigia, baciato dai raggi del sole e solleticato dai ricami dei granchi.
Poi un giorno fu raccolto con una paletta e messo nel fondo di una scatola. Si sentì sballottato e poi abbandonato nel silenzio e nel buio per giorni e giorni.
Dopo un tempo interminabile, finalmente un giorno rivide la luce e gli sembrò di rinascere, era di nuovo libero e anche se non sentiva più il rumore familiare delle onde marine, poteva scorrere allegramente tra le dita di chi l’aveva raccolto, nuotare nell’acqua limpida di un bella vaschetta e asciugarsi beatamente al sole.
Ma poi si sentì versato e rinchiuso in una strana bottiglia da dove non poteva più uscire: riusciva solo a vedere attraverso il vetro le ombre distorte di un mondo estraneo e non sentiva più né il soffio del vento né la voce del mare.
Vide che c’era una piccola via di fuga sul fondo della bottiglia e con fatica riuscì ad infilarcisi, granello dopo granello, ma alla fine si accorse di essere caduto in un’altra bottiglia tale e quale la prima. Stava ispezionando il fondo per cercare anche qui una via d’uscita, quando qualcuno afferrò la bottiglia e la rovesciò. Così brutalmente rimescolato da cima a fondo, faticò un po’a raccapezzarsi, poi si accorse di essere nuovamente nella bottiglia col buco in fondo, e pazientemente ricominciò pian piano a scappare attraverso quel pertugio.
Ma ben presto si rese conto che tutti i suoi sforzi erano vani, ogni volta veniva rovesciato e doveva ricominciare daccapo, e la storia si ripeté ossessivamente per giorni e giorni. Quando, ormai esausto e rassegnato, si lasciò andare senza più forza , si accorse di scivolare dall’una all’altra bottiglia anche contro la sua volontà, come una sostanza inerte e inanimata.
Poi un giorno all’improvviso sentì vibrare fortemente il vetro e un gran rimbombo intorno, e vide le pareti di quel mondo ondeggiare e cadere.
La bottiglia sussultò e poi cadde in terra frantumandosi in tanti pezzi. Il pugno di sabbia si sparse tutto intorno, mescolandosi e perdendosi tra la polvere e i pezzi di quel mondo crollato. Non ebbe neppure il tempo di raccapezzarsi, perché arrivò una grande ondata di fango e di detriti a spazzare via tutto, trascinandolo sparpagliato in mille granelli fino al mare.
Benché così strapazzato e sbattuto dalle onde, sentì le sue forze rinascere al sapore della salsedine e alla carezza del vento; raccolse ad uno ad uno tutti i suoi granelli e sospinto da un grosso cavallone fu gettato di nuovo sulla spiaggia, dove si distese lasciandosi inumidire dolcemente dalla spuma della risacca.
Arrivò una coppia di giovani a sedersi lì accanto, e sul palmo disteso del pugno di sabbia disegnò un cuore con una conchiglia. Le onde del mare si ritirarono pian piano per non cancellarlo, e il disegno restò inciso fino al tramonto. Nella notte la luna trascinò di nuovo le onde sul bagnasciuga e il cuore si sciolse, ma il giorno dopo arrivarono due bambini, costruirono un castello e in cima modellarono una torre col pugno di sabbia bagnato, che fu felice di respirare di nuovo da lassù il profumo del mare e sentire la carezza del vento.
Morale della favola: un pugno di persone, strappato dalla sua terra, rinchiuso e strapazzato da un bieco carceriere, deve sperare nell'arrivo del terremoto che travolga tutto e riporti la libertà, la pace, la serenità dei cuori e l'amore tra la gente.
martedì 7 dicembre 2010
Il gabbiano, il comignolo e il nido
C’era un gabbiano che era stanco di fare il nido tra le fredde rocce e sugli scogli battuti dal mare, e invidiava le cicogne che facevano il nido sui comignoli, perché avevano sempre la paglia riscaldata dal tepore del focolare. Così volò su una grande isola e quando vide un bella villa con vista sul mare, atterrò sull’alto comignolo per farci il suo nido.
Ma non aveva, come le cicogne, un becco abbastanza grande per trasportare i rami lunghi e le canne fronzute, così i rametti e le paglie gli cascavano ogni volta giù dal camino, e alla fine della giornata, dopo un gran lavoro inutile, gli toccava dormire, in bilico su una zampa sola, sul bordo del comignolo, col rischio di cadere dentro mentre era addormentato.
Poi un giorno incontrò un gabbiano di città, che volava sulle montagne di rifiuti e non conosceva neppure il mare. Lui gli disse che nella discarica che frequentava c’erano dei materiali larghi e molto leggeri, che avrebbe potuto trasportare agevolmente.
Il gabbiano andò su quella discarica e infatti trovò delle lastre di espanso leggerissime, che senza alcuna fatica riuscì a portare sul comignolo per riempire la canna del camino. Poi raccolse altri materiali dalla discarica per completare il riempimento e costruire in cima il nido.
Ma il camino, così tappato, cominciò a far fumo. Il padrone di casa uscì fuori e urlando fece volar via il gabbiano, ma quello dopo un po’ tornava ad appollaiarsi sul comignolo.
Allora l’uomo salì sul tetto, cacciò il gabbiano a sassate e in sole tre ore liberò il camino dalla spazzatura; poi sedette sul comignolo, perché quello era il posto più alto e ci doveva stare solo lui.
Ma alcuni suoi dipendenti invidiosi accesero il camino per scottargli il sedere e costringerlo a mollare il posto. Lui allora saltò giù dal tetto e cacciò via tutti quegli infedeli, e tornò ad intrattenere i suoi ospiti russi ed africani cantando insieme al suo chitarrista di fiducia e alle sue ballerine.
Ma intanto il gabbiano era tornato alla discarica, aveva chiesto aiuto a tutti i suoi simili, e in centomila tornarono tutti in volo sopra quel tetto trasportando una montagna di spazzatura, che scaricarono sulla casa sommergendola completamente. Suonò l’impianto d’allarme , arrivò la protezione civile con le ruspe e l’esercito, ficcò tutta la spazzatura nei compattatori e ne uscirono un centinaio di ecoballe, che vennero messe nei container e spedite sul continente.
Quando la villa tornò alla luce e fu possibile ispezionarla, non fu trovata traccia di esseri umani, ma in tutte le stanze c’era un gran via-vai di gabbiani che attraverso le finestre trasportavano i rami e le foglie del bosco per costruirsi il nido.
martedì 30 novembre 2010
Il vuoto e la musica
C’era una volta un piccolo vuoto che era rimasto imprigionato a terra quando il grande vuoto era salito nello spazio. Non era informe come un gas, ma per non disperdersi nell'atmosfera terrestre era protetto da un involucro sferico come una bolla di sapone. Poi era stato catturato da uno scenziato ed imprigionato in un barattolo di vetro a chiusura ermetica, e non riusciva più ad uscire per tornare lassù nel grande spazio vuoto come lui.
Attraverso il vetro, vedeva l’uomo che preparava barattoli come il suo. Per seguire i suoi esperimenti di alimentazione extra gravitazionale, in alcuni metteva prima sostanze colorate, granelli e cubetti di cibo che galleggiavano nel vuoto come la neve nelle sfere di vetro dei souvenir.
Poi faceva entrare pian piano vari tipi di arie, che teneva in altri barattoli, per vedere la reazione che che ne scaturiva, e il vuoto dentro si liberava man mano, e tornava del tutto libero quando tutta l’aria aveva preso il suo posto.
Il piccolo vuoto capì che presto sarebbe potuto uscire in quel modo. Lesse sulle etichette dei barattoli i vari tipi di aria : “Aria di montagna” , “Aria di mare”, “ Aria fine”, “Aria fritta”, “Aria compressa”, “Aria viziata”, “Aria sana” e tante altre, ma non voleva essere mescolato a nessuna di queste. C’era invece un’Aria di Musica che l'uomo aveva catturato e rinchiuso, ed è questa che avrebbe voluto sposare, e magari portare via con sè quando fosse tornato libero..
Ed ebbe un colpo di fortuna. L’uomo aveva anche preso un’Aria di Tempesta e voleva cacciarla in un barattolo, ma quella turbinosamente gli sfuggì e creò un vortice che risucchiò il barattolo del piccolo vuoto e quello della Musica, che caddero a terra e si spaccarono,liberando i due prigionieri. La bolla del piccolo vuoto ondeggiò in aria e ne approfittò subito per inglobare l’Aria di Musica. Ma si accorse che nel vuoto la Musica non si sentiva più, e capì che non era la sposa adatta a lui.
Intanto l’uomo, prima che la bolla potesse fuggire dalla finestra, attaccò l’aspiravuoti per riacciuffarla, ma l’Aria di Tempesta spalancò la finestra e la bolla scoppiò, liberando la Musica. Così il piccolo vuoto poté volare in alto per tornare nel grande vuoto dello spazio, e l’uomo non riuscì più a catturare la Musica per rinchiuderla in qualche barattolo, restò sempre libera di suonare ogni volta che il vento faceva vibrare una corda o soffiava in una conchiglia ..
sabato 27 novembre 2010
Il pastore e l'ulivo
C’era un vecchio pastore che aveva una sola vecchia pecora e un vecchio cane. Andava ogni giorno, da anni, nel suo campo pieno di vecchi ulivi, ma era sempre più stanco, e quando il sole picchiava forte si stendeva all’ombra dell’ulivo più frondoso e si addormentava, insieme alla sua pecora e al suo cane.
E ogni volta faceva lo stesso sogno: sognava di quando era arrivato il lupo e gli aveva sbranato tutte le pecore, e allora si risvegliava tutto tremante, accarezzando il cane e la pecora che dormivano accanto a lui.
Un giorno cambiò ulivo, perché il sole era più basso e l’ombra era girata. Si addormentò e fece un altro sogno, di quando un incendio gli aveva distrutto la casa e ucciso moglie e figli, e si era salvato solo il cane. Il giorno dopo, sotto lo stesso ulivo, rifece lo stesso sogno, e anche il giorno appresso.
Provò a cambiare ancora ulivo, e stavolta sognò di quando era tornato da militare e gli avevano dato una medaglia, poi, sotto un altro ulivo, di quando era caduto dalla scala per cogliere le olive e si era rotta la gamba, e per poco non moriva se il suo cane non avesse dato l’allarme. E anche il giorno successivo, sotto la stessa pianta, rifece esattamente lo stesso sogno.
Cambiò ancora e sognò il giorno del suo matrimonio, poi la nascita del suo primo figlio, poi andò sotto l’albero con intagliato un giorno ed un cuore e sognò di quando s’era innamorato la prima volta.
Allora si ricordò che durante la vita aveva intagliato su un ulivo, ogni volta diverso, la data del giorno in cui gli era successo qualcosa di particolare, per cui capì che ogni pianta con una data incisa era legata ad un episodio significativo, bello o brutto, della sua lunga vita, e che dormendo sotto quella pianta poteva rivivere in sogno quell’episodio, e che il sogno cambiava se cambiava l’ulivo sotto il quale si addormentava.
Da quel giorno scelse di dormire solo sotto gli ulivi con incise le date dei giorni più felici, o comunque belli e sereni, evitando di dormire sotto quelli che gli avrebbero risvegliato brutti ricordi.
Il tempo passò e venne il giorno che si sentì così stanco che non sapeva se avrebbe avuto la forza di rialzarsi, anche se si fosse risvegliato. Allora incise su un tronco la data di quello stesso giorno, e poi si distese a dormire. Sognò di quella volta che era venuto nell’uliveto insieme al suo nipotino, e mostrandogli i grandi ulivi, gli aveva detto: “Quando non ci sarò più, tutte queste olive saranno tue” E il bambino aveva risposto: “Ma nonno, come faccio a prenderle, se sono così alte ?”
“ Non ti preoccupare – gli aveva detto – quando verrà quel giorno non farai nessuna fatica a prenderle”.
Quando quella sera suo nipote, ormai ragazzo, non vedendolo tornare venne a cercarlo, lo trovò con il suo vecchio cane raggomitolato in grembo, e la sua vecchia pecora stretta a fianco, tutti e tre addormentati per sempre.
E tutte le olive erano cadute a terra dai rami degli ulivi, pronte per essere raccolte.
mercoledì 24 novembre 2010
Il castagno e l'edera
C’era nel bosco un grande castagno che sovrastava con la sua folta chioma tutti gli alberelli e i cespugli del sottobosco. C’era però un’edera strisciante e invidiosa dell’altezza degli alberi, che voleva sollevarsi da terra e salire ad affacciarsi sul cielo aperto, così si arrampicò sul tronco rugoso del castagno per raggiungere i rami più alti. Ma arrivata in cima c’erano appesi ai rami tanti ricci di castagne e non riusciva a passare senza pungersi e ferirsi le foglie.
L’edera, col suo fare sinuoso e infido, cercò di convincere il castagno a lasciar cadere i suoi frutti e a farla passare, ma le castagne non erano ancora mature e l’albero si rifiutò.
Allora l’edera fece salire altri tralci dalle sue radici e avvolse completamente il tronco del castagno, minacciandolo di soffocarlo e farlo morire. Il castagno non voleva cedere a quella prepotenza e arrendersi al ricatto, ma sentiva che lentamente quel parassita lo stava strozzando fino a impedirgli di aspirare la sua linfa.
Chiese aiuto ai funghi del bosco, pregandoli di fare un cerchio attorno al suo tronco per non far passare l’edera, ma i funghi chiesero in cambio un diritto perenne di attaccarsi alle sue radici e succhiare la sua linfa, col rischio di farlo morire ugualmente. Così rifiutò.
Chiese aiuto ai bruchi, perché salissero in cima all’edera e le rosicchiassero tutti gli apici dei germogli per non farli più crescere, ma quelli chiesero in cambio di mangiarsi anche le sue foglie. Questo l’avrebbe fatto morire lo stesso, e allora disse ancora di no.
Infine si rivolse al fulmine, pregandolo di scaricarsi sull’edera e bruciarla, ma il fulmine rispose che non poteva fare distinzioni, e se avesse colpito l’edera avrebbe bruciato anche il suo tronco. E il castagno fu costretto a rifiutare anche questo aiuto.
Così alla fine dovette rendersi conto che di fronte alle minacce dei sopraffattori e dei prepotenti non poteva contare sull’aiuto di quelli che erano pronti ad approfittare di chi si trova in difficoltà , ma che doveva cercare un amico disinteressato.
Così chiese consiglio al tempo. Il tempo gli disse di resistere finché fosse arrivato lui a sistemare tutto. Infatti venne l’autunno, le castagne maturarono e i ricci caddero a terra. Arrivò nel bosco il contadino con tutta la sua famiglia a raccogliere le castagne, vide l’albero ricoperto dall’edera e allora con la falce tagliò tutti i tralci alla base per farli morire, ed estirpò anche tutta l’edera attorno alle radici del castagno.
Morale della favola: di fronte alle avversità e agli attacchi dei nemici, non bisogna arrendersi, ma resistere e aspettare che il tempo faccia maturare il frutto della rivalsa.
domenica 21 novembre 2010
La maschera e il volto
C’era una maschera con un volto maschile che cercava un volto femminile a cui adattarsi perfettamente. Volteggiava nell’aria come un uccello rapace, e quando vedeva passare un bel volto di donna, planava sulle ali del vento fino a stamparsi in faccia alla prescelta.
Ma c’era sempre qualcosa che non corrispondeva, o la distanza degli occhi, o la lunghezza del naso o del mento, o la larghezza degli zigomi e della bocca.
Questi attriti, poco dopo il contatto, provocavano una reazione del volto che strappava la maschera e la gettava via.
La maschera, disperata da tutti questi insuccessi e stanca di essere respinta, andò a consultarsi da uno psicologo. Costui analizzò la situazione e poi disse alla maschera che il motivo del rigetto dipendeva dai suoi connotati. La maschera rappresentava la faccia di una befana ed era difficile trovare una donna che accettasse di adattarsi alla sua forma. Se non voleva essere più respinta, doveva, anziché pretendere che il volto si adattasse a lei, fare il contrario e uniformarsi e quasi ricalcare il volto al quale voleva congiungersi.
Allora la maschera andò da un chirurgo plastico, che la infiltrò e la manipolò fino a renderla malleabile come una pellicola gommosa e argillosa.
La maschera divenne cedevole e flaccida come un disco di pasta lanciato in aria dal pizzaiolo, e quando piombava sul volto prescelto, aderiva così bene da riprodurne perfettamente la fisionomia.
Ma in questo modo perse tutto il suo carattere e la sua personalità, divenne un fantoccio multiforme sempre molle che ubbidiva a tutte le espressioni assunte dal volto femminile.
Così arrendevole e sottomessa, in breve si sentì degradata e mortificata, e sentì il bisogno di riassumere delle sembianze più personali e dignitose.
Così tornò dal chirurgo plastico e gli chiese di trasformarla in una materia semirigida, automodellante, che non si lasciava plasmare ma che decideva autonomamente di scegliere una forma piuttosto che un’altra, come una specie di Giove che poteva, secondo le occasioni e il tipo di donna che voleva conquistare, assumere le sembianze più adatte allo scopo.
Il chirurgo rispose che c’era un sistema più sicuro e più semplice: prese il calco della faccia di un noto presidente, sempre sorridente e suadente, ben impastata con acidi, botulini e collageni da essere praticamente irresistibile e inalterabile, insomma una bella faccia tosta, una faccia che aveva sempre successo con le donne per la sua influenza e notorietà, e la applicò a caldo sulla maschera fino a farla ben assorbire e fonderla completamente con la cartapesta.
E da quel momento la maschera divenne così morbidamente ammaliante e seducente, che tutti i volti femminili accettavano di combaciare e congiungersi con lei con la massima duttilità e arrendevolezza. Ma in verità quella faccia non era indistruttibile e lentamente cominciò a perdere i pezzi, e l’effetto magico non fu eterno come era stato garantito….
sabato 20 novembre 2010
La nuvola e il nembo
C’era una nuvola candida come la neve, come la panna montata, come un gran fiocco di bambagia, che scorreva nell’azzurro gonfiandosi in tanti palloncini ribollenti, tutta vanitosa del suo biancore immacolato e cercando di evitare di sporcarsi mescolandosi con qualche nuvola più grigia, informe e filacciosa.
Ma c’era un nuvolone scuro e procelloso che l’aveva presa di mira e spesso la infastidiva, aspettandola quando passava e poi cercando di intorbidarla, oppure minacciandola con dei brontolii e anche assumendo forme sconce per scandalizzarla. Se lei cercava di fuggire, lui la inseguiva rivolgendole dei rigurgiti volgari e perfino delle scariche indecenti.
Un giorno riuscì a sbarrarle il passo chiudendola in una gola di montagna dove lei si era rifugiata, e col suo vocione tonante le urlò che se non si fosse lasciata avvolgere e coprire dal suo scuro mantello, l’avrebbe trafitta e polverizzata con una delle sue saette.
Quando il nuvolone, per spaventarla ancora di più, cominciò ad abbagliarla con dei lampi e a farle cadere addosso una fitta pioggia, la nube bianca cercò una via di fuga ma capì che ormai era circondata, ma piuttosto che arrendersi e farsi inglobare e sporcare da quelle volute scure, era disposta a sciogliersi e svanire per sempre.
Così quando lui, per tramortirla del tutto, cominciò anche a tempestarla con dei grossi chicchi di grandine, lei li trattenne dentro di sé per raffreddarsi tutta e poi si trasformò in neve bianca, che cadde con tanti piccoli fiocchi ad imbiancare tutta la montagna.
Il nuvolone, scornato e arrabbiatissimo, se ne andò oltre l’orizzonte a cercare altre nubi bianche da inseguire e a formare cicloni in mari lontani. Da allora , se cercava di rifarsi vivo, veniva subito scacciato da luminosi cumuli nembi o disperso dalle pecorelle del cielo.
Così da quel momento tornò il sereno e il sole sciolse la neve. Si formò un torrente limpido e scrosciante che discese dalla montagna e arrivò al mare.
L’acqua della nuvola, dolce e pura, non voleva mescolarsi con quella salata e opaca del mare, così restò in superficie in uno strato sottile come una bolla di sapone, finché il calore del sole la fece evaporare e poté tornare in cielo a formare una nuvola candida come il latte, con le sue belle gote gonfie come le vele di un galeone e bianche come le ali di un gabbiano.
giovedì 18 novembre 2010
La canna e la pastorella
C’era una grossa canna, alta, nodosa e forte in un canneto in riva al fiume. Non aveva piume in cima e non si piegava sibilando al vento, mentre le canne più giovani e snelle vibravano e risuonavano ad ogni folata. Però non era un suono musicale, ma una specie di fischio sempre monotono.
C’era una pastorella che veniva d’estate a fare il bagno nel fiume, e si nascondeva nel canneto per spogliarsi. Le giovani canne, vedendo le leggiadre grazie della pastorella, fischiavano anche più forte, si flettevano e la accarezzavano con le loro piume mentre lei scendeva nell’acqua. E ogni volta beffeggiavano l’inflessibile canna, che era sempre silenziosa ed evitava perfino di sfiorare la pastorella, da quando una volta, per toccarla, l’aveva graffiata con le sue lamine taglienti.
Poi un giorno un picchio entrò nel canneto e fece dei buchi sulla vecchia canna per cercarsi un nido, e quando arrivò il vento da quel duro legno non uscirono fischi sibilanti, ma dei suoni dolci ed armoniosi.
La pastorella ascoltò quei suoni e pensò di costruirsi uno strumento con quella canna per passare il tempo mentre curava le pecore. Tagliò la canna bucata e la portò a suo padre, che la intagliò ad arte, aggiungendo altri buchi, fino a trasformarla in un bel piffero.
La pastorella imparò a suonare molto bene il suo strumento, e lo portava sempre con sè anche quando tornava nel canneto per fare il bagno. Le giovani canne, quando lei suonava, smettevano di fischiare e ascoltavano rapite quella musica, ma erano un po’ invidiose perché la vecchia canna era diventata un bello strumento levigato che emetteva seducenti melodie, e soprattutto perché era sempre accarezzata dalle mani della bella pifferaia e baciata dalla sua bocca.
mercoledì 17 novembre 2010
La zebra ed il ghepardo
C’era una zebra che era stufa di essere vestita a strisce come un carcerato, ma soprattutto voleva mimetizzarsi per evitare di essere attaccata e sbranata dai ghepardi come le sue simili. Così cominciò, ogni mattina, a rotolarsi nel fango finché non si distingueva più il colore del suo pelo.
Con quel fango seccato addosso, la zebra sembrava un bel cavallo baio, e siccome di cavalli in giro non ce n’erano, era guardato con curiosità da tutti gli altri animali.
Per distinguersi ancora meglio, cercava di non mescolarsi al branco delle altre zebre, ma galoppava solitaria nella savana.
Un ghepardo cacciatore notò quello strano quadrupede e cominciò a corrergli dietro, un po’ perché era affamato, ma anche perché voleva vedere da vicino questa nuova preda che non sembrava una zebra, ma neppure un bufalo, uno gnu o un’antilope come gli altri animali con le corna. Lo raggiunse e gli saltò sul groppone, poi cercò di morderlo ma gli restò la bocca piena di fango e saltò giù sputacchiando per lo schifo.
Allora gli si parò davanti e gli chiese che razza di animale fosse.
- “ Sono una cavalla zoccola ” – rispose la zebra.
- “ Allora sei come le zebre zoccole, che per non essere mangiate si fanno perfino montare…”
- “ No, zoccola perché ho gli zoccoli d’oro, vieni qui dietro che ti faccio vedere ”
Il ghepardo, curiosissimo, andò alle spalle della zebra e si abbassò per vedere gli zoccoli, ma si buscò una doppia scalciata sul muso, finendo ammaccato a gambe all’aria.
La zebra ne approfittò per scappare e guadagnare terreno, ma il ghepardo, infuriato, si era già ripreso, e velocissimo com'era stava per raggiungerla.
Allora la zebra cercò di attraversare un fiume per sfuggire alla cattura, ma nell’acqua il fango si sciolse e riapparve il suo caratteristico manto a strisce.
Il ghepardo, riconosciuta la zebra, le urlò che non solo l’avrebbe presa e sbranata, ma prima, per vendicarsi dell’affronto subito, l’avrebbe pure violentata. Detto fatto si gettò di slancio nel fiume per ghermirla, ma improvvisamente dall’acqua saltò fuori un coccodrillo che afferrò il ghepardo e lo trascinò a fondo per papparselo con comodo.
Morale della favola: se vai a zoccole, rischi di finire in bocca a qualche pappone…
martedì 16 novembre 2010
Il palombaro e la murena
Questa è la storia di un palombaro e di una murena, ma contrariamente al genere indicato nel nome, il palombaro era una donna e la murena era un maschio.
Il palombaro scende sott’acqua solitamente per lavorare, mentre la nostra palombara si immergeva per cercare spugne, coralli, perle ed altri oggetti preziosi.
Durante una delle sue immersioni, la palombara era entrata in un relitto di galeone e nella cabina del capitano aveva trovato uno scrigno che sperava fosse pieno di gioielli. Ma appena sollevato il coperchio ne era uscita una grossa murena, che le era saltata addosso per morderla. Fortunatamente la muta dello scafandro era durissima e la murena aveva subito dovuto mollare la presa.
Poi nuotando col suo sinuoso serpeggiare davanti all’elmo di bronzo, vide dalla finestrella che all’interno di quella specie di mostro c’era una bella ragazza e il suo istinto ferino si ammorbidì, e cominciò a boccheggiare davanti al vetro dell’oblò. Si direbbe quasi che tubasse come una colomba, ( o palomba, in questo caso…) per quanto sia possibile farlo sott’acqua...
La palombara, al sicuro dentro il suo scafandro e per nulla intimorita dall’animale, continuò la sua ricerca e spostava con la sua mano guantata le spire della murena ogni volta che le coprivano la visuale, mentre quest’ultima, quasi ammaliata da quello strano e affascinante essere, le si attorcigliava mollemente attorno al corpo, come invitandola a giocare con lei.
Infastidita e impedita nel suo lavoro, la palombara uscì dal relitto e cercò di liberarsi da quell’abbraccio, prendendo la murena per il collo e perfino cercando di calpestarne la lunga coda coi suoi pesanti scarponi di piombo.
Attratto da quella curiosa coppia che si divincolava sul fondo, un banco di aringhe, che passava là sopra, cominciò a ruotare attorno alla palombara come per partecipare alla danza. Ma le aringhe attirarono un grosso pesce spada, che arrivò come una saetta nel mucchio per farsi un boccone di aringhe.
La sua lunga spada trapassò la nuvola di aringhe, ma nello slancio trafisse anche la muta della palombara, aprendo uno squarcio sul fianco dal quale l’acqua entrò a fiotti, mentre un torrente di bollicine d’aria usciva per risalire veloce verso la superficie.
La murena colse l’occasione e si infilò nello squarcio, girò attorno al corpo della fanciulla, poi uscì di nuovo dall’apertura col capo, come fosse affacciata dalla sua tana, tamponando e impedendo in questo modo l’afflusso dell’acqua.
La ragazza, che era quasi svenuta per lo spavento del pesce spada e dell’acqua che le stava riempiendo lo scafandro, passò dalla paura al riso, perché ora sentiva la coda della murena che, con giri morbidi e vellutati, le solleticava il corpo.
Avvisò la barca d’appoggio di recuperarla, ma quando la murena s’avvide che lo scafandro iniziava a salire, con un morso tremendo troncò il tubo dell’aria e la gomena che lo reggeva e lo fece ripiombare sul fondo.
La ragazza capì che l’aria ancora contenuta nello scafandro stava finendo e stava per soffocare, ma poi avvertì l’amplesso della murena che la tranquillizzava, e il solletico divenne pian piano carezza e infine piacere. Si sentì come posseduta e la sua natura fusa a quella del pesce. Pian piano l’acqua la invase ma lei riusciva a respirare lo stesso, perché i suoi polmoni si erano trasformati in branchie.
Quando un altro palombaro scese ad agganciare lo scafandro e gli uomini dalla barca lo riportarono a bordo, si aspettavano di trovare il corpo della ragazza ormai senza vita, ma, appena tolti i bulloni dell’elmo, videro saltar fuori una bella sirena che con la sua bionda chioma al vento spiccò un bel salto fuori bordo per tuffarsi tra le onde.
Si racconta che molti palombari e subacquei che si immersero in quel mare negli anni successivi, giurarono di aver visto una sirena nuotare armoniosamente attorno al relitto e poi sparire nelle profondità dello scafo come fosse la sua casa.
domenica 14 novembre 2010
Il grillo e la cavalletta
C’erano una volta un grillo e una cavalletta, ma di sesso inverso a quello che farebbe supporre il nome, nel senso che il grillo era una femmina e la cavalletta un maschio.
Il grillo viveva in un prato e passava gran parte del tempo suonando il suo strumento.
La cavalletta viveva in un orto dall’altra parte di un fossato, perché non gli piaceva l’erba e invece era ghiotto di verdure. Sentiva arrivare da lontano il “cri-cri” del grillo ed era curioso di conoscere chi fosse a suonare così bene, ma ormai era troppo vecchio per volare e non aveva il coraggio di fare un salto così lungo per attraversare il fosso.
Allora lanciò un appello attraverso le lunghe antenne a tutti gli insetti del prato, sperando che rispondesse anche il grillo, cioè la grillina. Quando sentì vibrare le antenne con le risposte, le ascoltò tutte finché riconobbe il caratteristico trillo della grillina.
Allora le mandò un messaggio personale, spacciandosi per un grillo maschio che si era un po’ invaghito di lei sentendola suonare. La grillina, lusingata da quei complimenti, accettò l’amicizia e iniziò a scambiare messaggi con la cavalletta, prima parlando solo del tempo, di fiori e di insalata, poi anche di musica, perché la cavalletta sapeva solo strofinare le elitre emettendo un suono stridente e per niente armonioso, e voleva che la grillina gli insegnasse a suonare e cantare melodiosamente come lei.
La risposta che arrivò fu incoraggiante e preoccupante insieme: se voleva delle lezioni di canto non poteva dargliele da lontano, ma doveva recarsi sul prato personalmente. Ma la cavalletta non voleva farsi vedere, perché in confronto ad un grillo era un essere grande e grosso, e soprattutto vecchio. Rispose che sarebbe andato a lezione, ma solo di notte, perché di giorno doveva lavorare a falciare le verdure dell’orto.
Così, un paio di notti dopo, approfittò di una canna piegata sul fosso per passare sull’altra sponda, e con una lucciola in testa per farsi luce andò a cercare la grillina, che dormiva su una foglia di tarassaco.
Quando l’ebbe trovata, cercò di svegliarla carezzandola dolcemente con una delle lunghe zampe, ma quei movimenti delicati erano contrari alla sua rudimentale struttura e natura: la zampa gli scattò come una molla e finì per dare un gran calcio alla grillina, che precipitò a terra svegliandosi di soprassalto. Vide un grande ombra su di sé, e credendo fosse un mostro tentacolare che col suo occhio luminoso in testa stava per afferrarla e forse per mangiarla, scappò via spaventata. Chiese aiuto ad una formica amica sua, che corse al nido a chiamare tutte le altre. Un esercito di formiche si mosse rapidamente contro la cavalletta, cominciò ad addentarla da tutte le parti e poi a trascinarla verso il nido, per finirla a morsi e farne tante bistecche per l’inverno.
Allora la cavalletta, per liberarsi da quelle piccole belve fameliche, con un ultimo sforzo si trascinò sulla riva del fossato e si buttò in acqua, dove però affogò miseramente e finì in bocca alle rane.
Morale della favola: se vuoi delle lezioni di musica, accontentati dei corsi per corrispondenza…
sabato 13 novembre 2010
Il gatto e la cicogna
Tanto tempo fa una bimba vide allo zoo una tigre e chiese a Gesù Bambino di portargliene una. Ma la tigre era troppo feroce da tenere in casa e giocarci, così Lui creò un modello ridotto di tigre che chiamò gatto. Il gatto però non aveva perso l'istinto tigresco del cacciatore di prede e si appostava sempre per tendere agguati agli uccellini, e quando se ne posava uno sul prato, con un gran balzo lo afferrava e se lo mangiava.
Un giorno il gatto vide passare in cielo una cicogna, ma così da lontano gli sembrava un piccolo uccello. La seguì mentre con ampi giri si avvicinava, poi la vide scendere sul tetto di una casa vicina dove c'era un fiocco sulla porta, e calare dal comignolo un grosso involto che teneva col becco. Un altro giorno la vide di nuovo atterrare su un'altra casa che aveva esposto un fiocco sulla porta, e far scendere un altro fagotto giù dal camino.
Allora pensò di attirarla anche sulla sua casa. Memtre giocava con la bambina, le rubò un fiocco e lo attaccò alla porta. Poi si mise ad aspettare sul tetto, nascosto dietro il grosso fumaiolo, e quando vide arrivare la cicogna saltò fuori e l'afferrò per le zampe. Ma la cicogna aveva grandi ali e volò subito in alto portandosi dietro il gatto aggrappato alle lunghe zampe, finché lui, spaventato da quell'altezza, mollò la presa e ricadde pesantemente a terra, mentre la cicogna tornò a depositare il fagotto nel suo nido.
Il gatto aveva picchiato la schiena ed era tutto dolorante, e voleva vendicarsi per lo smacco subito. Allora il giorno dopo riappese il fiocco alla porta per far tornare la cicogna. Ma lei aveva capito l'inganno e stavolta arrivò senza involto, attese che il gatto le saltasse addosso, poi l'afferrò col becco, lo riportò ancora più in alto e poi lo lasciò cadere, stavolta sul duro asfalto.
Il gatto si fece ancora più male, imparò la lezione e da quella volta non infastidì più la cicogna, ma soprattutto da quel giorno salì ripetutamente sul tetto e saltò giù sul prato, finché ebbe imparato ad atterrare sempre sulle quattro zampe.
E questa tecnica seppe trasmetterla ai suoi discendenti: infatti da allora, anche se un gatto cade a zampe all'aria, atterra sempre sulle quattro zampe.
venerdì 12 novembre 2010
L'ippocampo e la medusa
C'era una volta un ippocampo che era nato del tutto simile ad un piccolo cavallino, non solo nella testa come gli altri ippocampi, e sua madre l'aveva abbandonato appena nato, vedendolo agitarsi con cinque code come un mostricciattolo. Lui era stato raccolto da una bella medusa che l'aveva allattato coi suoi lunghi filamenti, ed era cresciuto sano e forte come un bel puledrino. Con le sue quattro zampette galoppava nel mare molto più veloce degli altri ippocampi che avevano solo la coda. Però da grande si accorse che gli altri ippocampi con la loro lunga coda si attorcigliavano facilmente alla coda delle loro amiche, per corteggiarle e carezzarle a lungo, mentre lui, con suo corto codino, non riusciva ad avvicinarle ed afferrarle, e veniva trasportato via dalla corrente. E anche quando, galoppando controcorrente, ci riusciva, si accorgeva con rabbia che loro lo evitavano per la sua stranezza. Guardando gli altri ippocampi, vedeva che, dopo aver intrecciato le code, la femmina faceva tante bollicine, il maschio ci danzava attorno, poi lei le raccoglieva e le metteva in una sacca attaccata alla pancia, per tenerle al caldo.
Un giorno incontrò un ippocampina bellissima, con tanti fiocchetti in testa, le piccole pinne sventolanti come alucce d'angelo e una lunga coda attorcigliata che sembrava una chiave di violino. Lei non scappò intimorita dal suo aspetto, ma si dimostrò curiosa e disposta a farsi corteggiare. L'ippocampo, non potendo allacciarla con la coda, la afferrò stretta con le quattro zampette, ma forse strinse troppo e lei si divincolò, spaventata da quello strano abbraccio, e scappò via.
L'ippocampo, così respinto e amareggiato per la sua diversità, andò a chiedere consiglio alla medusa che gli aveva fatto da balia. Lei gli disse che se voleva far l'amore doveva diventare come gli altri ippocampi, trasformando due zampette in due pinne e attaccando le altre due alla codina per farla diventare più lunga.
Per far questo doveva spalmare per sette giorni e sette notti le sue zampette con il liquido urticante che lei aveva dentro i filamenti. L'ippocampo seguì le istruzioni e dopo una settimana divenne uguale agli altri ippocampi, e tutto contento tornò a cercare la sua ippocampina.
Lei vedendolo così trasformato accettò subito di intrecciare la lunga coda alla sua, e alla fine fece una gran nuvola di bollicine per farsele fecondare. L'ippocampo, inesperto delle manovre d'amore, credeva che quello fosse un gioco e invece di seminarle e restituirle alla sposa, cominciò a giocare con tutte quelle palline, colpendole di testa e calciandole con la coda per farle entrare in bocca ai pesci, ben contenti di partecipare a quel gioco e riempirsi la pancia.
Allora l'ippocampina, arrabbiatissima, abbandonò per sempre le sue uova e il loro incosciente padre, andandosi a cercare un altro sposo meno snaturato.
L'ippocampo raccolse tutte le palline, le mise nella sua sacca e tornò dalla medusa a chiedere ancora consiglio. Lei lo sgridò, gli spiegò che quelle erano delle uova da covare e che aveva gravemente offeso e deluso la sua compagna prendendole a calci.
Ma ormai il pasticcio era irrimediabile e non gli restava che finire di covare quelle uova. L'ippocampo capì quello che aveva combinato, e da quel momento curò le sue uova con grande istinto paterno finché tutti gli ippocampini nacquero e uscirono dalla sua sacca. Questo comportamento fu notato da tutte le ippocampe che passavano di lì, le quali si consultarono e convennero che sarebbe stato comodo, e anche giusto, convincere d'ora innanzi tutti i maschi a collaborare alle gestazioni, aiutando le femmine a covare i piccoli fino alla nascita. Così fu deciso e tutti gli ippocampi dovettero accettare, e da allora infatti la custodia delle uova nelle sacche, come una specie di gravidanza, fu affidata per sempre agli ippocampi maschi.
giovedì 11 novembre 2010
Erato e il cigno
Erato era una giovane musa che ogni giorno si recava in riva ad un laghetto, vestita con un peplo trasparente e una corona di rose tra capelli. Sedeva sulla sponda suonando la sua lira e cantando melodiose arie, e tutti pesci accorrevano ad ascoltarla. Un giorno molto afoso che era molto accaldata e voleva rinfrescarsi, deposte le vesti, entrò in acqua e seduta sul fondo iniziò a bagnarsi il bel corpo e i capelli disciolti. Ma non si accorse che la corona di fiori, caduta in acqua, si stava allontanando al largo.
Un cigno che l'aveva ascoltata ed ammirata tutti i giorni, senza il coraggio di avvicinarla, quella volta era venuto a nuotarle vicino, affascinato dalla bellezza delle sue forme. Vide la corona galleggiare e approfittò dell'occasione per raccoglierla e riportarla alla bella bagnante. Erato ringraziò il cigno accarezzandogli il lungo collo, e il cigno sentì un forte turbamento che percorreva tutte le sue bianche piume.
Poi la musa risalì sulla riva, si distese per asciugarsi al sole e si addormentò.
Il cigno uscì dall'acqua, si avvicinò ad Erato dormiente e cominciò a carezzarle il corpo col suo lungo collo, poi cercò di beccarla delicatamente nelle pieghe più nascoste, ma temeva che lei si svegliasse. Allora cercò di suonare la lira per conciliarle meglio il sonno, ma beccando le corde queste si ruppero con uno schiocco stridente ed Erato si svegliò all'improvviso. Vide la sua lira rotta e, piena di collera, inseguì il cigno che cercava di fuggire strepitando per tornare in acqua o alzarsi in volo.
Prima che lui riuscisse a spalancare le sue grandi ali, lo afferrò per il collo, poi prese una delle corde della lira e lo strozzò. E il povero cigno, che di solito sapeva fare soltanto uno sgraziato verso stridulo e molesto, con un ultima esalazione emise un lungo canto d'amore.
mercoledì 10 novembre 2010
La cometa e il meteorite
C'era una volta una bella cometa che attraversava la volta del cielo nelle notti d'Agosto. La sua chioma illuminava le stelle con un arco luminoso, mentre la sua lunga coda sfolgorante tracciava ghirigori e disegnava note nel buio.
Un freddo e duro meteorite, che stava precipitando da tempo attraverso lo spazio, la vide passare e cambiò rotta per affiancarla e chiederle se poteva sfiorarla da vicino, così sperava di accendere il suo duro cuore di pietra ed infiammare anche lui il cielo con una scia luminosa.
La cometa accondiscese a quel contatto e il meteorite si arroventò come una palla di fuoco, ma poi, invece di lasciare dietro di sè una bella coda bianca, fece più fumo che fiamme e, non conoscendo le note, cominciò a sporcare il cielo con brutti scarabocchi e a scrivere parolacce sulla faccia della luna.
Allora la cometa scappò correndo in fondo all'orizzonte. Il meteorite la inseguì, ma lei aumentò così tanto la velocità, che il meteorite finì di bruciarsi del tutto per l'attrito. Restò solo un frammento rozzo e scuro, che cadde sulla terra scavando una buca profonda, da dove non si riuscivano neppure a vedere le stelle.
martedì 9 novembre 2010
La fata e lo spaventapasseri
C'era una volta uno spaventapasseri in un campo di verdure. Non gli importava molto di essere vecchio e stracciato, ma non sopportava più di essere piantato in terra senza potersi muovere, come vedeva fare ai contadini e ai suoi animali. Ogni tanto, quando il campo era deserto, vedeva arrivare una fata, col suo alone di luce attorno alla bionda chioma e un alito di vento sulle vesti leggere, che con la bacchetta magica veniva a toccare i cavoli per trasformarli in bambini. Quando c'era lei, le canne suonavano come flauti, i rami come arpe, le zucche e le zucchine come viole e violini, e una soave musica si diffondeva nell'aria.
Un giorno passò un vampiro volando sopra quel campo, vide la fata e, attratto dalla sua candida pelle, cercò di morderla sul collo. Ma la fata aveva la bacchetta magica che la proteggeva come una cappa di vetro. Allora il vampiro volò in alto, poi piombò in picchiata sulla fata e riuscì a strapparle la bacchetta. La fata, sentendosi indifesa, corse a ripararsi dietro lo spaventapasseri. Il vampiro avrebbe voluto morderla ma, anche se non era un passero, si spaventò molto davanti allo spaventapasseri, e lasciò cadere la bacchetta che aveva nel becco.
La fata raccolse la sua bacchetta e trasformò subito il vampiro in un piccolo pipistrello, che, impaurito dal sole, volò via per rifugiarsi in una buia grotta.
Allora lo spaventapasseri chiese alla fata se, per premio, poteva trasformarlo in un giovane contadino, così avrebbe potuto piantare più cavoli per fare bambini, e curare zucche, zucchini, canne e ramoscelli per fare musica al suo arrivo.
La fata esaudì quel desiderio e lo spaventapasseri divenne un bel giovanotto. Però, invece di curare il campo, si mise a corteggiare la fata con parole così ardite che alla fine lei, offesa ed indignata, con un colpo di bacchetta magica trasformò il giovane in un maialino, che si allontanò grugnando e grufolando nell'orto. E poichè per consolarsi si mangiò tutte le verdure, quando arrivò il contadino si beccò pure delle frustate sul groppone.
domenica 7 novembre 2010
Il rospo e la cicala
Su un lungo stelo del canneto pescante nello stagno, la cicala lustrava le sue ali, sulle quali si riflettevano gli iridescenti arabeschi del sole, mentre il frinire del suo canto accompagnava le lievi folate del vento che pettinava l'erba sulla riva.
Il rospo sollevò i suoi occhi globosi dal pelo dell'acqua per spiare la cicala. Voleva spiccare un salto per mangiarla ma restò ammaliato dal suo canto, e cominciò a gracidare all'unisono, pensando di dar vita ad un piacevole duetto canoro con la cicala. Ma il suo gracidio era stridente e sgradevole, e la cicala volò via infastidita. Allora il rospo nuotò fino alla sponda dove aveva visto un bel grillo e con un balzo lo ingoiò. Il grillo continuò a trillare anche in gola al rospo, che attese il ritorno della cicala, poi aprì la bocca e cominciò ad accompagnare il frinire col canto del suo grillo.
La cicala si avvicinò per ascoltare la voce del rospo diventata così armoniosa. Il rospo spalancò la bocca per mangiarla e il grillo scappò via. Al rospo sfuggì un orrendo gracidio e la cicala volò via sdegnata.
Il rospo si rituffò nello stagno e da quel giorno lasciò in pace la cicala.
venerdì 5 novembre 2010
La merla e il corvo
C'era una merla che girava ogni mattino di ramo in ramo, modulando e solfeggiando melodiosi gorgheggi e soavi trilli. Un vecchio corvo nero, affascinato dalla sua grazia e dal suo canto, la seguiva ogni giorno cercando di imitarla, ma in realtà il suo "KRA-KRA" era fastidioso e irritante.
La merla cercò gentilmente di educare il corvo ad emettere suoni meno sgraziati, imitando il suo verso in maniera più armoniosa e invitandolo a ripeterlo. Il corvo a volte assecondava la merla e addolciva il suo verso, ma spesso, per dispetto o per scherzo, emetteva dei suoni molto simili alle parolacce degli umani. La merla li ripeteva per correggerlo, ma se capitava nei pressi il merlo maschio, sentendo quei versacci la sgridava aspramente, e se la sentivano le amiche merle, la evitavano giudicandola un'uccellaccia poco seria.
La merla disse al corvo che se non avesse smesso di fare l'impertinente con quei versi volgari l'avrebbe allontanato per sempre. Il corvo ubbidì e per un pò si comportò bene e aveva perfino imparato a imitare qualche canto melodioso della merla, ma un giorno, istigato da altri corvi in vena di fare una chiassata col loro gracchiare, si mise a fare uno schiamazzo di Kra-Kra sguaiati e fracassoni proprio sopra il nido della merla, che oltretutto i suoi amici corvi lordarono pure, prendendolo di mira con una gara di cacche.
La merla, infuriata e offesa, volò addosso al vecchio corvo e lo beccò ripetutamente in testa, spennandolo completamente.
Il corvo, scornato e ridicolizzato di fronte agli altri corvi, se ne volò via lontano con un cicalecchio lamentoso e da quel giorno non si azzardò più ad avvicinare la merla...
giovedì 4 novembre 2010
Ricordi lacustri
....Il lago luccica come una colata di mercurio, sfaccettato in mille specchi riflettenti le ville ed i giardini rovesciati nell'acqua come figure di carte francesi. I pesci frugano lenti sotto le chiglie delle barche appisolate all'ombra dei salici.
Le rive tuffano esche pietrose tra piccole onde infestate di sole e becchi di gabbiani, e un lento fluttare ravvia le chiome di languide alghe aggrappate ai pontili....
martedì 2 novembre 2010
Mea culpa
E' un'ode di un anonimo del '500, o forse di un contemporaneo un pò farneticante e dissennato...chissà, ma me lo scrivo per promemoria, dovesse mai servirmi....
Mi preme chieder venia se t’offese
il crudo tosco ov’attinse il mio stilo
nel commentar le celie che scambiavi
con lievi accenti tra amici sempre adusi
a misurar l’affondo dei lor detti.
Mi dolse deglutir l’aspra rampogna
e vederti adombrata per il dardo
incautamente tratto, come un sasso
gettato in mezzo a pavide colombe,
o lo strale che infrange le vetrate
mentre s’eleva in chiesa austero coro.
Forse ti parve un affilato brando
la mia giocosa spada di cartone
e ti ferì l’accento aihmè scurrile
di motti e di facezie indirizzate
come rozzo villano a gentildonna,
quasi a sfregiar li muri con graffiti
fosse talvolta la mia mano indotta
e non a colorar squisite tele.
E’ d’uopo porre un freno a tale eccesso
e porre un “accio” al fine del mio nome
in luogo del gentil diminutivo
che omaggi più garbati han meritato
in altre più lodevoli occasioni.
Se dunque per un verso piovve il fiele
dall’altro per compenso sparsi incenso
e forse equa sentenza mi parrebbe
l’esilio per più giorni in altro sito
piuttosto che l’estremo tuo castigo.
Ma se peggiore pena mi toccasse
per sempre col silenzio messo al bando,
poco varrebbe venir come a Canossa
e il miele delle scuse offrire in dono:
se il nappo è tale e debbo berne il succo
di soave licor urgerne gli orli
poco mi giova, e nottole ad Atene
e vasi a Samo il vano mio adornar
di fiori e di romanze il tuo balcone.
Ho intriso di vernice il tuo ritratto
e il dolce pianoforte ho soffocato
con le scomposte trombe del mio strillo:
giusta condanna parmi tracollare
dell’Ade eterno all’ultimo girone.
Mi preme chieder venia se t’offese
il crudo tosco ov’attinse il mio stilo
nel commentar le celie che scambiavi
con lievi accenti tra amici sempre adusi
a misurar l’affondo dei lor detti.
Mi dolse deglutir l’aspra rampogna
e vederti adombrata per il dardo
incautamente tratto, come un sasso
gettato in mezzo a pavide colombe,
o lo strale che infrange le vetrate
mentre s’eleva in chiesa austero coro.
Forse ti parve un affilato brando
la mia giocosa spada di cartone
e ti ferì l’accento aihmè scurrile
di motti e di facezie indirizzate
come rozzo villano a gentildonna,
quasi a sfregiar li muri con graffiti
fosse talvolta la mia mano indotta
e non a colorar squisite tele.
E’ d’uopo porre un freno a tale eccesso
e porre un “accio” al fine del mio nome
in luogo del gentil diminutivo
che omaggi più garbati han meritato
in altre più lodevoli occasioni.
Se dunque per un verso piovve il fiele
dall’altro per compenso sparsi incenso
e forse equa sentenza mi parrebbe
l’esilio per più giorni in altro sito
piuttosto che l’estremo tuo castigo.
Ma se peggiore pena mi toccasse
per sempre col silenzio messo al bando,
poco varrebbe venir come a Canossa
e il miele delle scuse offrire in dono:
se il nappo è tale e debbo berne il succo
di soave licor urgerne gli orli
poco mi giova, e nottole ad Atene
e vasi a Samo il vano mio adornar
di fiori e di romanze il tuo balcone.
Ho intriso di vernice il tuo ritratto
e il dolce pianoforte ho soffocato
con le scomposte trombe del mio strillo:
giusta condanna parmi tracollare
dell’Ade eterno all’ultimo girone.
domenica 31 ottobre 2010
La danza delle vertigini
Un effetto secondario, ma assai fastidioso e invalidante, credo delle mie passate immersioni, è una labirintite che mi provoca crisi vertiginose. Mi capita di rado, ma quando arriva è come essere su una barca con il mare a forza nove........
Se ne possono scandire i tempi come in una sinfonia....
PRELUDIO e RONDO’:
Quando salgo sull’otto volante
e la stanza comincia a girare
è una danza di oggetti d’attorno.
Come un volo acrobatico inizia
e la terra mi ruota nel casco.
ANDANTE CON MOTO:
Un vulcano da tempo silente
d’improvviso tornato a tremare,
e disegnano picchi e montagne
i pennini del mio terremoto.
Due girandole al posto degli occhi,
sulle retine lampi guizzanti
e le palpebre a forza serrate.
CRESCENDO:
Fischia un vortice di vento
nei profondi labirinti
mentre tremula tintinna
la spirale delle chiocciole.
Cade l’asta del funambolo,
ed ondeggia e poi s’abbatte
fino a terra il mio traliccio.
TOCCATA e FUGA :
Dal groviglio di viscere
retromarcia del cibo,
la bocca come un geyser
con ignote frequenze
erutta lava a fiotti
negli alvei di ceramica.
ADAGIO e FINALE :
Poi i nembi si diradano,
si smorzano gli sciami
del tremito tellurico,
rallenta la centrifuga,
la trottola s’arresta
e scendo finalmente
dal mio disco volante.
sabato 30 ottobre 2010
South Sentinel
Finendo di sfogliare l'album delle mie movimentate escursioni marine, ecco il ricordo di un'altra brutta avventura vissuta attorno alla piccola e sperduta isola di South Sentinel, nell'arcipelago delle Andamane.
Partendo dalla nave "Tarmugli", ancorata di fronte a quella splendida e deserta isoletta, uscivamo in barca per delle battute di pesca subacquea. O meglio, gli altri cacciavano e io facevo foto, portandomi appresso il mio Katiuscia più che altro per difesa che per velleità venatorie.
Come mi era già capitato nel Mar Rosso, anche stavolta, saltato dalla barca per ultimo e subito distratto dalla bellezza dei fondali, fui trascinato dalla corrente, che si divideva sulla punta spartiacque dell'isola in direzioni opposte, verso la parte a sud, mentre la barca e gli altri si erano allontanati verso nord.
Dopo dieci minuti di faticoso pinneggiare, durante i quali non avevo progredito di un metro, mi resi conto che era inutile sfiancarsi e aspettai che venissero a riprendermi.
Dopo un'altra mezz'ora di deriva, finito ancora più a sud, decisi di buttarmi verso terra. Il mare era cresciuto e delle ondate enormi si infrangevano su un ininterrotto fondale di scogli corallini. D'altra parte non c'erano alternative, o buttarsi in quella bolgia rischiando di finire in briciole, oppure diventare un relitto qualsiasi nella vastità dell'oceano.
Passai dei lunghi minuti di indecisione prima di decidermi a saltare dal trampolino di una di quelle ondate. Aspettai una serie di onde più piccole e alla fine mi gettai in quel gorgoglio, in un ribollire bianco di spuma, senza vedere più nulla. Sentii strisciare braccia e gambe su una serie di rocce, abbastanza levigate per non lasciare il segno e infine, con un ultimo balzo, andai dritto ad inzuccarmi nella prima striscia di sabbia, saggiando nello stesso tempo la durezza ma anche la confortante concretezza della terra.
Ero esausto. Mi liberai dell'attrezzatura e mi misi all'ombra, anche se per farmi notare meglio avrei dovuto restare al sole. Mi resi conto che non mi restava che attendere, perché attraversare la foresta a piedi nudi era impensabile, seguire la costa rocciosa impossibile e tornare via mare inconcepibile.
Passarono circa tre ore, durante le quali, spossato com'ero, cercai di non addormentarmi, perché le centinaia di grossi granchi che vedevo zigzagare sulla sabbia avrebbero fatto, temevo, un lauto banchetto con i miei ottanta chili di carne fresca.
Finalmente vidi la barca spuntare dal promontorio e farmi dei segnali. Poiché non poteva avvicinarsi, non mi restava che ributtarmi in quella bolgia. Decisi di abbandonare sulla spiaggia fucile, pallone e cintura dei piombi ( ma non la mia Nikonos) per essere più agile e leggero. Poi al momento giusto, calzate le pinne, mi ributtai in acqua, superai rapidamente il tratto critico e raggiunsi la barca. C'erano solo i due marinai indiani, perché il gruppo era già rientrato sulla nave e solo allora si erano accorti della mia mancanza.
Mangiai gli avanzi, poi nel pomeriggio, quando gli altri decisero di tornare a pescare, mi feci lasciare sulla spiaggia, perché volevo tentare di andare a recuperare il mio fucile nuovo e il resto. Idea più balzana non mi poteva venire. In pratica si trattava di tagliare il promontorio, coprendo il tratto di boscaglia da una spiaggia all'altra.
Avevo calzato i miei stivaletti di gomma e iniziai la traversata. L'intrico divenne subito fitto e il percorso più lungo del previsto. Saranno stati i discorsi sui pitoni del capitano, o l'oscurità che aumentava, o i ragni in faccia, o le mille contorte radici sul terreno, o gli improvvisi starnazzamenti di grossi uccelli, o i mille fruscii dei grossi granchi che strisciavano tra le foglie, fatto sta che il timore iniziale stava pian piano diventando quasi paura.
Decisi di buttarmi verso il rombo che sentivo del mare, e fortunatamente quando arrivai mi resi conto che ero proprio sulla spiaggetta della mia meta. Raccolsi la mia roba e iniziai il percorso inverso, stavolta più spedito, seguendo la traccia dei miei rami tranciati.
Ad un certo punto, proprio in mezzo al sentiero, c'era un granchio enorme con le chele spalancate, uno di quelli che si arrampicano sulle palme per staccare i cocchi. Non c'era modo di aggirarlo e dovetti calargli con forza il macete sul carapace. Ma la lama si era sfilata e non la mollava, finché riuscii a recuperarla con un bastone e finire l'animale con altri colpi. Lo infilzai e me lo portai appresso come un trofeo, ma all'arrivo gli indiani non lo vollero in barca e dovetti buttarlo via.
Dopo una giornata così riposante, non c'è da stupirsi se, dopo cinque minuti dalla fine della cena, ero già sprofondato in letargo nella mia cuccetta...
venerdì 29 ottobre 2010
Il fisico che fu...
A proposito della "vita di corsa" del post precedente, come corollario allego le foto di qualcuna delle mie sgambettate più significative, un paio che si riferiscono alle uniche gare non amatoriali, ma competitive a cui ho partecipato, il campionato nazionale master di marcia, e una, quella di Foglizzo, che mi ricorda invece la performance più pazza ed estrema che ho portato a termine, quattro maratone in quattro giorni, totale 168 km., concluse ognuna con serate di baldoria e sbronze.....
mercoledì 27 ottobre 2010
Una vita di corsa
Ho speso mille giorni
e più di mille miglia
seguendo il desiderio
di respirare a fondo
le brezze e le folate,
le nebbie ed i profumi
di monti e di vallate,
sequenza di falcate
su strade e su sentieri
di mille campi e case,
composto marciatore,
compasso delle gambe,
bloccando anche il ginocchio,
tallone e poi la punta,
bacino altalenante,
stantuffo delle braccia,
oppure sempre in corsa
col ritmo del respiro,
le gocce di sudore
colate nella pioggia,
bruciate insieme al sole,
e i tacchi consumati
su asfalti e su brughiere,
in terre anche lontane,
stancanti maratone,
migliaia di partenti
in gara con se stessi,
un occhio alle lancette
per vincere al traguardo
del tempo personale.
E infine solo un sorso
di bibita al ristoro,
oppure una medaglia,
un nastro o un attestato
da aggiungere ai ricordi
del mio perenne andare
sui duri saliscendi
e i prati della vita.
martedì 26 ottobre 2010
Una giornata al mare...
Tornando alle mie avventure da subacqueo, devo dire che altre due volte ho rischiato di finire i miei giorni disperso in mare. Oggi voglio ricordare quel giorno alle Dalhak, un arcipelago del Mar Rosso difronte all'Eritrea.
Il viaggio era iniziato già abbastanza inquietante scendendo da Asmara, posta su un altopiano, per arrivare a Massaua, sul mare. Poiché andare via terra era proibitivo per le bande di predoni, il nostro gruppo scelse quello che eufemisticamente si può chiamare aerotaxi, in realtà un catorcio di bimotore che andava solo perché eravamo in discesa, ma che ho il sospetto venisse poi rottamato all'arrivo, come altri suoi simili, senza mai tornare indietro... Ricordo che il pilota, rigorosamente a piedi scalzi, aveva dovuto scacciare a calci una gallina che, sfuggita dalle varie gabbiette poste elegantemente sopra le nostre teste, era finita starnazzando in mezzo alla pedaliera.
A Massaua ci informarono che il nostro "Hotel" era stato temporaneamente chiuso per un'infezione colerica, così alloggiammo in una stamberga ancor più fatiscente dell'aereo, con la "hall" piena di capre e un beduino che alla "reception" consegnava, oltre le chiavi, una specie di carta moschicida da appendere al muro, un candeliere smoccolato e una brocca d'acqua. La stanza sembrava la cella del Conte di Montecristo e le lenzuola sulla branda ospitavano cortei di formiche, probabilmente in caccia di altri inquilini meno visibili all'occhio.
Dopo una nottata passata su una sedia, andai a lavarmi la faccia in mare, evitando anche prudentemente di far la colazione inclusa nel "bed & brekfast", consistente in una tazza di latte spillato fresco direttamente dalle capre.
Più tardi, insieme agli altri, ci imbarcammo su una delle barche a motore usate dai locali per la pesca e per portare i turisti alle Dahlac. Queste isole sono 360, quindi c'è l'imbarazzo della scelta. Non so ora, ma allora erano tutte disabitate, e la maggior parte poco più grandi di uno scoglio, aride e brulle. Ma sotto la superficie, il mare è di una ricchezza di forme e di colori incredibile.
Mentre gli altri cacciavano, io ho cominciato a far foto, e, come al solito, un pò per indisciplina e un pò perché distratto ed attardato dalle soste per cercare le inquadrature migliori, lentamente mi sono allontanato dal gruppo, trasportato dalla corrente. Mi sono prima accanito ad inseguire una tartaruga, poi una grossa cernia maculata, e quando ho rialzato la testa dall'acqua non ho più visto nessuno, neppure la barca d'appoggio. Prima che la corrente mi trascinasse ancora più lontano, mi sono arrampicato su uno scoglio affiorante e poi sulla lingua di sabbia retrostante, probabilmente una delle 360 isole. Era poco più grande di quelle che si vedono sulle barzellette dei naufraghi, ma senza la palma, solo sabbia, scogli e grossi granchi con i loro occhietti peduncolati che mi scrutavano curiosi.
Vista la situazione conclusi che avevo scarse probabilità di ripetere l'avventura pluriennale di Robinson Crusoe, tenuto conto che avevo già una gran sete e fame, e di soccorrevoli Venerdì nei paraggi non se ne vedevano.
Tolta la muta, mi sono arrostito al sole per cinque ore sperando che mi ritrovassero.
Finalmente, quando già il sole era al tramonto e mi preparavo ad un'altra notte agitata, con la variante dei granchi al posto delle cimici, vidi una barca all'orizzonte. Saltato in piedi, cominciai a roteare sopra la testa il pallone rosso da sub sperando che mi vedessero, e mi sentii rinascere quando vidi la barca puntare diritta nella mia direzione.
Inutile dire che, una volta imbarcato, dovetti subirmi a lungo le imprecazioni incomprensibili dei barcaioli, più quelle dei miei compagni nelle varie lingue e dialetti italici...
domenica 24 ottobre 2010
Temporale a Milano
Eccomi sulla torre del parco,
come in cima a un minareto:
sotto un cielo minaccioso
di lampi all'orizzonte
s'inginocchia la città,
con le case lambite a terra
da mille ruote frettolose
e accarezzate sui tetti
da lunghe setole di sole
che forano le nubi scure.
Gli alberi del parco
come un muschio uniforme
ai piedi del fungo ferreo,
e i viali occhieggiano
sotto le foglie tremule,
ricamando i prati
come auguri di zucchero.
Sul tappeto di foglie
l'autunno semina castagne
lucenti come coleotteri.
Oltre i tetti delle case
fioriti di antenne
il duomo innalza pinnacoli
come un ciuffo d'erba spinosa.
Rivedo le sue guglie
e dentro un caleidoscopio
di vetrate a colori
sotto le volte di trina,
nella foresta pietrificata
delle grandi colonne,
e un brillare di lumi
come un campo di grano
nelle notti d'Agosto,
come un mare al tramonto
vestito di lampare.
Ora il cielo è travolto
da una lava nera di nubi
e guizzano lingue di fuoco
a colpire le antenne
dei lontani grattacieli.
E da questo balcone d'Olimpo
scaglio anch'io come Giove
i miei lampi di foto
come fulmini accesi
sulla mia capitale.
(pieffe)
Iscriviti a:
Post (Atom)