lunedì 26 dicembre 2011

LUCE


Quando hai perso la presa
coi tuoi piedi di argilla
scivolando nel fondo
del tuo cuore incrinato,
non più petali e liane
e velluto di muschi
ad oliarti il franare,
ma lo schiaffo di felci
ed i graffi di roccia
sulle ali spezzate
del tuo volo ferito,
ecco arriva una luce
che trafora le gocce
e la polvere d’acqua
che fiorisce nell’aria,
e ritorna il vigore
per scalar la cascata
e scacciare le eclissi
delle buie giornate.
E’ una ripida ascesa
tra roveti e licheni,
ma c’è un raggio che guida
e ti porta su in vetta
dove il sole ti inonda
e ti asciuga le ali.

lunedì 12 dicembre 2011

Effetto Monti


Non ho più la recinzione
per far fronte all’inflazione,
ho segato un grosso pino
con gli abeti del giardino,
e la siepe che saliva
per l’aumento anche dell’IVA,
la magnolia ho fatto a fette
per pagare le bollette,
delle buche ho poi scavato
per i crolli del mercato,
ho potato pure il bosso
perché il conto è andato in rosso,
delle rose ho fatto a meno
per poter rifare il pieno,
ho tagliato le radici
per poter pagare l’ICI,
e se infine non bastasse
per pagar tutte le tasse
ho venduto rami e foglie
e impegnato anche la moglie.

martedì 22 novembre 2011

Scie


Come alcool che brucia
sui graffi di parole,
è come un colpo d’ascia
e restano le sole
sottili corde appese
del mio tappeto in volo,
sulle speranze accese
tra i buchi delle suole,
e sempre più contorte
le strade dietro l’angolo
come tirando a sorte,
quei fosfori son solo
le tracce ancora accese
di lucciole già morte.
E’ pietra che si sgretola
nella sabbia del mare,
un disegno di nuvola
che appare e poi scompare,
l’abbaglio di un momento,
un seme di tarassaco
soffiato nel vento,
l’orizzonte fantastico
il miraggio di un’isola,
un sogno da buttare
nel cestino elettronico.
Son rapide a bruciare
le mie ali di favola,
fantasie che dimentico
tra le mandorle amare.

sabato 19 novembre 2011

I gelsomini



Avevo scritto questi versi dopo il 2 Novembre, ma li pubblico solo ora con un pò di ritardo. Su questo tema avevo già scritto tempo fa una poesia, ma ogni volta che rinnovo quella visita, il ricordo di quei giorni riaffiora e ispira altri versi....

Ascesa un tempo lieve,
leggeri come il vento,
le nostre due allegrie
e cingoli da neve
le tue scarpe e le mie
sulle rampe scoscese
di questo verde monte,
accarezzando il muschio
delle tue mani tese,
ed un fior di gelsomino
raccolto dopo un salto
tra le ghiande e i cespugli,
senza badare ai graffi,
senza guardare appigli,
infilato tra i capelli,
e le allegre risate
tra il brusio dei ruscelli
come scrosci di cascate
e un duetto di canzoni
a guidare la cordata
delle nostre due emozioni
fino in cima alla salita.
Oggi ho fatto nuovamente
quel difficile sentiero,
dove c’era quel torrente,
dov’è ora un cimitero,
ed il bosco ora è muto,
solo immagini sfocate
delle nostre passeggiate,
di quel tempo ormai perduto,
solo aspri e irti sassi,
l’eco triste dei rintocchi,
gelo al cuore e stanchi passi,
e un rigagnolo negli occhi
nel portare a quel sorriso
dell’eterno tuo riposo
i tuoi cari gelsomini,
e il ricordo di quei giorni
quando avevi su quel viso
la letizia ed il rossore
per le mie frasi d’amore,
non per semplice riflesso
della luce dei lumini.

martedì 15 novembre 2011

Schiarita


A volte basta poco per cambiare un pò le cose... Una settimana fa vedevo tutto nero, ora c'è una schiarita: il premier si è dimesso, la nazionale ha vinto, la salute regge, ho fatto pace con gli amici internettiani, ho recuperato l'auto rimossa, il riscaldamento funziona, la moglie mi ha fatto una torta, la suocera rompe di meno....Cosa vuoi di più dalla vita ?

martedì 8 novembre 2011

Impasse


Come il maltempo che sta imperversando sul paese, provocando disastri e inondazioni e colpendo tanta gente, impedendo loro di riprendere una vita normale, anche sopra di me c'è un fitto mare di nubi che mi annebbia e mi vieta da giorni di rivedere un pò di sereno. Ragioni personali e disturbi di salute, problemi famigliari, contrarietà e fastidi vari, influssi sull'umore derivanti dalla situazione economica personale e generale del paese, delusioni e dispiaceri incontrati sul web, preoccupazioni e incertezze su certe scelte da fare ecc....Tutto questo mi provoca un malessere dal quale non so liberarmi e che mi rende abulico, apatico e sfiduciato, quasi passivo. Un pò come quegli aquiloni che non intendono decollare, tento di sollevarmi ma mi avvito subito e con rapide picchiate mi schianto di nuovo subito a terra.
Sto cercando di trovare motivi di interesse che mi stimolino quel tanto che basta a distrarmi e farmi uscire da questa inerzia e da questo pessimismo, ad esempio riprendere attività ed hobbies che ho quasi totalmente abbandonato, ma per ora senza successo. Ci sono troppi fattori concomitanti, e se non se ne risolvono almeno un paio dei più determinanti, dubito che la situazione migliori nel breve periodo...

venerdì 4 novembre 2011

Sul far della sera


A scanso di equivoci, questa poesia l'ho scritta più di un anno fa e, come tante altre mie, non si riferisce ad alcuno in particolare, parla di una figura femminile del tutto inesistente e di legami ed incontri ovviamente improbabili e puramente inventati, frutto solo di sogni mai vissuti nella realtà.....




Oggi il sole è velato
dietro un manto di nubi,
non c’è volo di storni
ad incantarmi gli occhi
e tacciono i fringuelli
sui trespoli del pino,
non fremono le felci
senz’ aliti di vento,
e il cane aspetta triste
qualcuno che è partito.
Eppure sento un fiume
che mi straripa dentro
da quando ho visto i fiori
aperti del tuo viso
tornati sulle vele
del mio vagante legno,
e son tornato a leggere
velluti di parole
quando temevo i dardi
trafiggermi per sempre.
Legati a lunghi elastici
saltiamo spesso il ciglio
di sponde parallele,
senza saper se indietro
saremo insieme attratti,
o se spezzato il vincolo
ognuno andrà lontano
seguendo la corrente.
Oggi però c’è un eco
in fondo a quel dirupo
che mi ripete tenero
sul fare della sera:
non devi più lasciarmi,
vorrei che tu restassi
accanto a me, vorrei
sulla tua stessa sella
sentire le tue braccia,
spronando il tuo cavallo
sulle dune di sabbia
col vento tra i capelli,
saltando le barriere
che ci solleva il tempo,
spezzando le catene
che ci oppone lo spazio.

martedì 1 novembre 2011

Momenti


Cerco un’ora di pace,
in quest’oasi silente
per filtrare il miscuglio
di pensieri frullati
e gettare nodi e grumi
che mi sporcano la vista
come mosche fluttuanti.
Un coniglio tende orecchie
sopra le verdi antenne
dell’erba spettinata,
e un vento leggero
scompiglia i vortici
dei moscerini in controluce.
Un trepido sole
perfora il velo grigio
di nubi e ramoscelli
e piove a brandelli
sulle ultime corolle
di anonimi fiori.
Riappare ancora
per un solo momento
in fondo al sentiero
il tuo sorriso che avanza
incontro alla mia attesa
e l’eco di un saluto
che rimbalza nel bosco
come un canto di uccelli.
Ma è un lume che si spegne
con la sera che scende
ad appassire i ricordi,
cancellando i colori
delle vesti leggere,
delle foglie morenti
e l’agitar di coda
di un cane festante.

lunedì 31 ottobre 2011

Fior di lantana


Fior di lantana
la vita è proprio strana,
monete a doppia faccia
miraggi e carta straccia.
Ti compri un gioiellino
che credi d’oro fino
poi scopri che è una cacca,
è solo una patacca,
ti vendono un dipinto
tu credi non sia finto,
lo sai quanto ti costa
poi scopri che è una crosta,
se prendi un’auto usata
la scopri taroccata,
ti danno del caviale
ma puzza mica male,
se è un vin da collezione
ti accorgi che è un bidone,
se metti i soldi in banca
un buco si spalanca,
ti piace un candidato
lo voti e t’ha fregato,
con quel che t’ha promesso
t’ha solo fatto fesso,
ti sposi un’illibata
e scopri che è sfondata,
insegui il grande amore
ti spezza solo il cuore,
cercavi un vero amico
ma vale quanto un fico:
fra tanta fregatura
se vuoi fede sicura
di certo non rimane
che solo il tuo bel cane.

mercoledì 26 ottobre 2011

Tradimento


Quella che segue è un'altra composizione che messa in rete ha provocato reazioni e critiche per le crude espressioni con cui si conclude. Allora la trascrivo dove fin dall'inizio avrei dovuto metterla, su questo privato "diario" dove penso di poter liberamente esprimere i miei pensieri e i miei sentimenti senza provocare proteste.
Comunque a chi ha stigmatizzato le mie parole ho già pubblicamente spiegato che i miei versi si riferiscono ad un vecchio episodio del 1970, e il motivo per cui, secondo me, la destinataria degli epiteti meritava, in quel frangente e a caldo, una mia reazione così violenta.
Ho pure spiegato la ragione (chiamiamola "licenza poetica"..) per cui ho contrapposto una prima parte di versi volutamente dolci e romantici con l'improvvisa forte chiusura: l'intenzione era di far sorridere chi è più propenso a interpretare come fantasiose e quindi cogliere il lato umoristico delle mie "filastrocche" e dall'altro invece di far ricredere, con quel violento finale, e quindi invitare a non fare supposizioni gratuite, chi pensa subito di intravederne riferimenti attuali.

Eri polena del mio vascello,
polare stella della mia rotta,
gioiello caro del mio forziere,
... prezioso fiore del mio giardino,
il sole ardente del mio mattino,
chimera e incanto di ogni mio sogno,
opera d’arte tra le mie tele,
perla lucente della collana,
diamante acceso del mio monile,
crema squisita sul mio palato,
il fiocco rosa del mio regalo,
ricamo d’oro del mio vessillo,
il primo veltro della mia muta,
preziosa sella del mio cavallo,
farfalla rara della bacheca,
musica dolce del mio strumento,
ma sei fuggita al primo fischio
di quel fottuto bel cicisbeo,
brutta puttana che non sei altro,
troia, baldracca, sozza mignotta.

venerdì 21 ottobre 2011

Il gatto nero

Una mia libera interpretazione (in endecasillabi) di un racconto di E.Allan Poe :

Da bimbo amavo molto gli animali
uccelli, pesci rossi e poi da grande
i cani e specialmente il mio Plutone,
un nero grosso gatto mio compagno
di giochi e di carezze sul divano.
Ma poi la mia bontà fu soffocata
dal demone del bere e la mia mente
divenne odio rabbia e crudeltà.
Malato di violenza e cattiveria
un giorno presi il gatto e con orrore
con un coltello un occhio gli cavai.
Terrorizzato il gatto da quel giorno
fuggiva al sol vedermi e mi evitava
temendo ancora il suo torturatore.
Indispettito da questo suo rancore
ebbro di vino un gesto di violenza
e di malvagità feci sul gatto :
con una corda al collo l’impiccai.
Per questa colpa quella stessa notte
le fiamme mi bruciarono la casa
lasciando in piedi solamente un muro
con sopra la figura del mio gatto
orribilmente all’albero impiccato.
Per mesi fui turbato dal rimorso
di quel peccato e giunsi a ricercare
un altro gatto in sua sostituzione.
Un giorno ero entrato all’osteria
e vidi un gatto nero su una botte
con una macchia bianca e senza un occhio.
A casa mi seguì facendo fusa
e per un po’ a me fu ben gradito,
ma presto subentrò la mia avversione
mentr’era di mia moglie il prediletto.
Paura ed odio ora m’ispirava
mentre la macchia bianca mi sembrava
di giorno in giorno sempre più una forca.
Un incubo divenne anche di notte
e quando un dì mi venne quasi addosso
decisi di finirlo con la scure.
Mia moglie per salvarlo si frammise
e il colpo che sul gatto era diretto
uccise lei col capo in due spaccato.
Il corpo poi decisi di celare
nel buco di un antico focolare
scavando la cantina dietro un muro
che poi rimisi in piedi coi mattoni.
Il gatto nel frattempo era sparito
ed io potei dormire con sollievo
dal gatto e dalla moglie liberato.
Poi un giorno vennero i gendarmi
cercando in casa e dentro la cantina
ma non scoprendo niente del delitto.
A conversare un poco mi fermai
con loro ad ascoltar nella cantina
quando dal muro un ululato forte
sentimmo provenir con gran terrore.
Il muro fu sfondato dai gendarmi
e c’era dentro un corpo insanguinato
e sulla testa il gatto indemoniato:
con l’occhio fiammeggiante mi fissava
e al cappio della forca mi spediva.

martedì 18 ottobre 2011

Trucioli


Era un alto traliccio
eretto con pazienza
per giungere a toccare
quell’alta sua tensione,
ma la stridente fresa
ha morso i suoi montanti
e consumato il ferro
coi giri del suo tornio,
finché non resta a terra
inutile coacervo
di trucioli d’acciaio,
involute spirali
di contorte parole.
Ma un piccolo germoglio
ricresce come pianta
e punta dritta in cielo
protesa coi suoi rami
a regger la corrente,
cattiva conduttrice
di scariche e saette
ma salda ed afferente
i succhi suoi benefici.

domenica 16 ottobre 2011

Cartoline


Quando sono in vacanza, è una mia antica usanza mandare una cartolina agli amici con una poesiola in rima. Ma quest'anno non ne ho spedite, quelle fatte le ho consumate tutte in spiaggia, perché erano fatte su misura per gli animatori del villaggio, che mi chiedevano di recitarne una al giorno per il divertimento degli ospiti.
Ne ho mandata solo una via SMS (breve esercitazione in rime baciate) ad un'amica, per farla sorridere durante un serioso convegno...

Del vento le brezze
dei monti le altezze
dei lidi le ampiezze
di scogli le asprezze
di onde mollezze
di baci dolcezze
di queste bellezze
ti mando certezze.

venerdì 14 ottobre 2011

Calma piatta


Dopo i voli impennanti
sulle ali del vortice,
ebbrezza dei volteggi
e i tuffi più eccitanti
nel cavo dell’onde,
il boma appeso al vento
stringendo di bolina,
tra gli schiaffi di spuma
i salti e le virate,
un bagno all’improvviso
e ancora in sù la vela
schizzando sulle creste
finché spingono i groppi.
Poi s’è smorzato il soffio
e calano gli aneliti,
si placano i marosi
e termina la danza.
Si spegne ogni emozione,
s’arena la mia tavola
su questa fredda sabbia,
spiaggiato me ne resto
intriso qui a guardare
le nubi grigie in cielo
la calma piatta in mare.

mercoledì 12 ottobre 2011

L' incontro


Il vento soffiava forte, quella mattina, mentre col bavero alzato aspettavo l’autobus. Poi una folata venne a stamparmi sui pantaloni un pezzo di carta stracciato, che vibrava coi suoi lembi stracciati come per chiedermi di salvarlo dal turbine che lo trascinava, come per trasmettermi un messaggio. Non so perché, ma mi chinai a raccoglierlo.
Perché l’ho fatto? Forse mi ha messo pena vedere com’era ridotto, oppure un gesto meccanico, di quelli che fanno la delizia degli psicologi. Un frammento di manifesto?, difficile capire di cosa parlasse … INCONTRO ( ore 17,30 ), niente altro. Inchiostro azzurro carico.
Chissà perché non l’ho gettato, perché invece l’ho messo in tasca, come si fa a volte con un vecchio appunto ritrovato tra le pagine di un libro, con su un nome e un numero di telefono dimenticati, ma che istintivamente conserviamo, come se fosse un messaggio trovato in una bottiglia portata dal mare... Era proprio la sensazione provata in quel momento, come se quella parola, incontro, fosse un appuntamento che non potevo ignorare.
Il giorno dopo, tirando fuori il biglietto dell’autobus, mi ricapitò in mano. Allora entrai al bar dell’angolo, ordinai un caffè e mentre aspettavo la mia tazzina, tirai fuori il pezzo di carta e lo mostrai al barista: “ Le dice niente questo ritaglio?”
Bingo ! Centrato al primo colpo, perché la risposta fu questa:
“Ah! si, dev’essere un pezzo del manifesto che avevo anch’io in vetrina fino a una settimana fa. Era l’avviso dell’INCONTRO di pallavolo della Green Volley con la Libertas di Vimercate. Me lo ricordo bene perché ci ha giocato anche mia figlia”
Poi, rivolto alla bella ragazza che stava lavando dei bicchieri in fondo al bancone, proseguì:
“ Beatrice, vero che questo è un pezzo del manifesto del tuo incontro di Sabato scorso?”
Lei si avvicinò, diede uno sguardo al foglietto e subito esclamò sorridendo:
“Certo, ne ho uno appeso in camera, con la foto di tutta la squadra e ci sono anch’io, anche se c’ho una faccia da ricercata …” e mi fece una smorfia raccogliendo con una mano i capelli biondi sul capo, come per imitare la foto. Poi, con quell’aria sbarazzina e dandomi del tu :
“Ma perché lo vuoi sapere? Sei venuto a fare un’intervista alla playmaker della squadra?” e giù un’altra risata.
Io la fissavo come incantato, allora mi spruzzò con le dita bagnate un po’ di gocce in faccia e tornò saltellando ai suoi bicchieri senza aspettare la risposta.
Il padre mi servì il caffè e disse come scusandosi: “Non ci faccia caso… Ride e scherza, ma è una brava figlia e lavora sodo, e poi meglio così che quelle sempre immusonite..”. Cercavo una scusa per parlarle ancora, per cui mi avvicinai dalla sua parte e le chiesi:
“ E come è andato l’incontro?” E lei : “L’abbiamo stracciate di brutto, ovvio, siamo le più forti del torneo, quelle della Libertas se ne sono tornate a casa a corna basse !”
Intanto era uscita da dietro il bancone per servire una birra ad un tavolo: era molto alta e ben fasciata dentro i suoi jeans stracciati alle ginocchia. Indossava un maglioncino girocollo che le fasciava le spalle ampie e metteva in risalto il profilo del seno. Era corto quel tanto da lasciar scoperta la vita sottile, e sulla pelle si intravedeva l’inizio di un tatuaggio, una specie di drago fiammeggiante.
Mi tornò in mente il motivo per il quale ero entrato, quella specie di presentimento per il quale avevo seguito quella traccia, così andai a sedermi, ordinai un toast al formaggio e cominciai a sfogliare il quotidiano che era sul tavolino.
Quando Beatrice arrivò a servirmi il toast, le chiesi : “E quando ce l’hai il prossimo incontro?”
E lei: “Sabato prossimo, perché?” “ Beh, mi piacerebbe venire a vederlo, o meglio venire a vederti…”
Mi guardò con aria sospettosa e un po’ seccata, poi mi piazzò con ostentazione il piattino davanti esclamando: “ Senti un po’, sei venuto a mangiare un toast o a rimorchiare? Come mai questa gran voglia di venire a vedere una squadretta di quarta categoria ?”
Addentai il mio toast, poi la guardai fisso negli occhi e dissi con aria carezzevole: “ Beh, chi ti dice che non sia un magnate che vuole sponsorizzarvi per pubblicizzare il suo marchio?”
Mi arrivò subito una risposta gelida:
“Senti, è più facile che tu sia un magnaccia che un magnate, senza offesa. Di clienti che vengono qui a fare il cascamorto ne ho già abbastanza. Vedi di finire il tuo toast e vai a farti un giro..”
Un po’ risentito, mandai giù il boccone, poi mi alzai avviandomi verso l’uscita, e passandole accanto le dissi: “ Non sono né un magnate né un magnaccia, ma comunque sabato ci sarò, perché ho sognato di incontrare una ragazza, e quando ho sentito il tuo nome, Beatrice, ho capito che sei tu, perché il tuo onomastico è il 18 Gennaio, la data del mio compleanno, e il tuo nome significa “Colei che rende felici”, ed io la felicità la sto cercando da un pezzo!”

(pieffe)

lunedì 10 ottobre 2011

Dall'equatore al polo


Questa poesia l'avevo messa su Facebook, ma ho omesso la dicitura "|Qualsiasi riferimento a fatti o persone ecc.ecc." ed ha provocato la protesta di chi ha creduto di riconoscersi nell'immagine evocata dai versi, come avessi citato un nome specifico... Ma io scrivo seguendo un'ispirazione, e non è detto che debba per forza ispirarmi a qualcosa o qualcuno di concreto.
Comunque, ad evitare malintesi ed ipotetiche allusioni, riporto questi versi dove avrei dovuto metterli fin dall'inizio, qui dove non danno fastidio a nessuno...

Estate e l’orizzonte
che palpita dai vetri
di finestre sugli occhi
sollevando miraggi
oltre i fosfori accesi
del mio monoscopio.
La mia stanza
capanna sugli alberi
e la tua voce
un canto di uccelli,
la mia sedia
legata a cento funi
come cesta d’aerostato
per scoprire il tuo volto
tra le bolle di nubi,
e poi di nuovo gas
al mio lanciafiamme
e zavorre terrestri
gettate per salire
oltre la faccia nascosta
del tuo pianeta,
e poi rincorrerti
incerto stereogramma
saltando meridiani
capriole della mente
fino a spiagge deserte
tra un fuggire di granchi,
ghirigori di sabbia
il mio pugno a clessidra
per disegnarti un cuore
sulle colline madide
di spuma ricorrente
del tuo seno di pixel.
Ma le stagioni cambiano
invertendo la rotta,
un vento freddo a spingere
la mia chiglia più a nord,
e l’eco del tuo nome
che si perde lontano,
la tua stella polare
confusa tra le nebbie
di boreali aurore,
e una morsa di ghiaccio
che assedia il fasciame
del mio scafo arenato
del mio petto gelato,
solo un ultimo cane
per trainare la mia slitta,
una penna d’albatross
e il sangue di un tricheco
per scrivere la fine
sul diario di bordo.

mercoledì 5 ottobre 2011

Twin Towers


Su una parete della mia stanza ho la stampa qui a fianco, che comprai a New York nel 1999. E'una foto aerea forse trattata con la tecnica della solarizzazione che usavo anch'io in camera oscura per elaborare le immagini, e guardando bene si vedono ancora in fondo le torri gemelle. C'è una lunga strada, forse la 5th Ave. che come una scia bianca sembra mirare le torri, come fosse la traccia che poi seguirono gli aerei quel terribile 11 Settembre del 2001. Sono passati dieci anni da quel giorno, e sono ancora vive in ognuno di noi le sconvolgenti immagini delle torri colpite e fumanti.
Quel crollo non ha cambiato solo lo skyline della Grande Mela, ha segnato una data in cui tutto è cambiato nel mondo da allora, e tutti in qualche misura, chi più chi meno, ne stiamo pagando le conseguenze ancora adesso...

mercoledì 28 settembre 2011

Shopping


- Al Festival delle Illusioni e delle Allusioni, avevo comprato una serie di film Ossessivi. Ma in pubblico facevano impressione, così me li sto guardando in salotto, gettando sul tappeto memorie e popcorn...

- All'Emporio Abbigliamento, nel reparto Cretineria avevo trovato un capo che mi stava a pennello, l'ho comprato ma in strada ridevano tutti, così l'ho gettato e ora ridono molto di meno, anche se vado in giro in mutande...

- Al Super, nel reparto carni, ho acquistato una confezione di zampini di gatto, così ne ho una scorta e non devo lasciarci il mio, ogni volta che vado al lardo...

- Al Centro Mobili ho acquistato un letto con incorporata una doccia fredda, che si scarica automaticamente nella fase REM dei sogni...

- Uno sfasciacarrozze mi ha venduto una Macchina del Tempo d'occasione, ma quando l'ho avviata e ho impostato 1960, si è sfasciata come una carrozza...

- In libreria ho comprato due libri, il "Manuale del sovrappensiero", ma me lo sono dimenticato sull'autobus, e "Cento modi per scacciare i chiodi", ma mi sono già dato due martellate sulle dita...

martedì 27 settembre 2011

Atterraggio


Dopo una chiusura di oltre 5 mesi, riapro i battenti di questo giornaletto, per vedere se mi torna la voglia di scriverci qualcosa. Magari la ripartenza sarà un po’ incerta , ma la batteria era quasi scarica …Il motore scoppietterà ed andrà un po’ a strappi, ma spero che riprenda a carburare decentemente senza fermarsi di nuovo.
E’ stato un lungo silenzio, come se avessi improvvisamente sbagliato direzione durante la mia quasi quotidiana sgambata lungo il sentiero di questo blog, perdendo per strada anche il filo dei pensieri che correndo mi facevano solitamente compagnia.
Così ho imboccato una salita che senza accorgermene è diventata una rampa, poi come un reattore sono entrato in orbita e sono partito per la tangente seguendo l’abbagliante coda di una cometa irraggiungibile, lasciando nel cielo una scia che scriveva parole sconclusionate e sempre più aliene, finché il vuoto crescente e il senso di vertigine mi hanno improvvisamente risvegliato e fatto decidere per il rientro. Allora ho premuto il pulsante di espulsione, la mia folle capsula si è persa nel cielo e ora sto lentamente scendendo aggrappato al mio paracadute d’emergenza, cercando di evitare che s’avviti anch’esso prima di poter rimettere i piedi a terra.
E’ stato un viaggio periglioso ma anche affascinante, ho provato l’ebbrezza dell’assenza di gravità e di senno e sentito l’attrazione di un altro corpo celeste, ho visto il netto alternarsi del buio e della luce sullo schermo del mio monitor, ma anche le lunghe ombre di notti insonni, ho provato l’emozione di un contatto extraterrestre, ho riso e ho pianto ascoltando messaggi dallo spazio.
Ora sono di nuovo qui nella mia edicola spoglia che attende, se non manifesti o pubblicazioni appese, almeno qualche post-it appiccicato quà e là, qualche promemoria che sblocchi di nuovo le idee da tempo atrofizzate… Contrariamente agli orsi che dormono d’inverno, è stato un lungo letargo estivo dal quale mi sono appena ridestato, e con questa prima uscita sto mettendo fuori il muso dalla tana per sentire ancora il profumo del miele.

giovedì 14 aprile 2011

Processo breve


Fior di forsizia:
in barba alla giustizia
il premier ha evitato
di esser condannato
col voto compiacente
della sua fida gente.
Ci son problemi gravi
se sbarcano le navi
con masse di emigranti:
qualcuno pure annega
e l’europa se ne frega.
I giovani precari
con gli euro sempre rari,
l’economia che frana
e l’aria che è malsana,
ovunque corruzione,
violenze ed evasione,
pensioni da affamati
e i ricchi più sfondati,
la mafia ed i delitti
l’aumento degli affitti,
il pieno che rincara
la droga e la lupara,
chi ruba impunemente
col deficit crescente.
Ne abbiamo ormai abbastanza,
ma questa maggioranza
si è solo preoccupata
ormai da vecchia data
di non turbar la mente
del nostro presidente
che ora ha quieta e lunga
la notte e il bunga bunga

(pf)

martedì 29 marzo 2011


Ieri sera tardi ho visto in TV il film "Open water", che mi ha agitato abbastanza da guastarmi il sonno. E' la storia vera di due subacquei, due fidanzati che restano sperduti in mare, irresponsabilmente dimenticati dalla loro barca appoggio. E' una continua ripresa ossessivamente fissa sul loro lungo galleggiare in mezzo all'oceano, e la cronaca del loro progressivo scoramento e sfinimento durante le ore in cui attendono invano i soccorsi. Ci sono riprese inquietanti dell'aggirarsi degli squali e poi raccapriccianti del loro attacco.
Il film mi ha coinvolto parecchio perché mi ha fatto rivivere le due volte che anch'io ( per mia imprudenza e non errore degli altri) mi sono perso in mare, una volta alle isole Dahlak e un'altra alle Andamane. E poi sono rimasto scioccato dall'epilogo, perché tutto lasciava pensare che alla fine i due sventurati venissero salvati, e invece finiscono divorati dagli squali. Io per fortuna in quelle brutte avventure non ho fatto la stessa fine, ma vedere il film mi ha lasciato addosso una specie di paura retroattiva....

lunedì 21 marzo 2011

I due fuchi e le api



C’era una volta un alveare sulla riva di un grande stagno, ma a governarlo non c’era una regina, c’era un reuccio, un fuco molto vanitoso ed intraprendente che s’era accaparrato grandi scorte di miele, propoli e soprattutto pappa reale, che usava per allettare e mantenere fedeli gli altri fuchi e che dispensava con profusione per attrarre alla sua corte le tante piccole e graziose api che gli ronzavano attorno.
Dall’altra parte dello stagno c’era un altro grande alveare, dominato da molti anni da un altro fuco ancora più ricco e potente, perché poteva contare su tanti grandi fiori di cui era pieno il suo giardino, così pieni di nettare che bastava suggere dalle corolle senza alcuno sforzo e senza bisogno di andarselo a cercare in altri campi o farselo vendere da altri alveari.
Questo fuco teneva per sé la maggior parte del miele e ne distribuiva assai poco agli altri fuchi e alle api operaie, e a lungo andare aveva creato un gran malcontento nel suo seguito. Anche in altri alveari della stessa sponda c’erano state ultimamente sommosse tra tutte le sottomesse api per le stesse ragioni.
Il nostro fuco reuccio, che era molto furbo e si teneva buoni tutti i potenti degli alveari vicini, aveva adocchiato da tempo le scorte di miele del dirimpettaio, e per ingraziarselo aveva scambiato dei doni e mantenuto buone relazioni con lui, e l’aveva perfino invitato nel suo alveare, offrendogli un gran ricevimento con tanti inchini, e anche la compagnia di tante giovani api con cui allietarsi.
Ma un giorno scoppiò la rivolta lungo tutta la riva opposta dello stagno e anche nel grande alveare del vicino le api si ribellarono contro il tiranno. Lui però aveva ancora molti fuchi fedeli ed era ben saldo nel suo alveare fortificato, così si vendicò scatenando una controrivolta e uccidendo parecchi suoi sudditi.
Molti di essi fuggirono, traversarono lo stagno e si rifugiarono nell’alveare del fuco reuccio, che però non aveva spazio e cercava di mandarli negli alveari vicini, anche perché la maggior parte dei suoi fedeli di corte non voleva estranei che venissero a mangiare il proprio miele.
Anche agli alveari vicini faceva gola il nettare della terra del fuco tiranno, e approfittarono subito della rivolta per spedirgli contro una nube di api guerriere, in modo da eliminarlo e stabilire per primi col suo sciame degli accordi per dividere i grandi depositi di miele.
Il fuco reuccio, che non voleva guastare i rapporti e gli accordi che aveva col tiranno, inizialmente si era tenuto in disparte per vedere chi avrebbe prevalso nella battaglia, poi, quando i rivoltosi sembravano ormai vincitori, si era schierato con la decisione d’attacco degli altri alveari, ma senza impegnarsi troppo direttamente, concedendo solo il suo alveare come base di sosta e rifornimento per le api guerriere che arrivavano da lontano. Così defilato sperava di non compromettere definitivamente i rapporti di amicizia col tiranno, in caso quest’ultimo alla fine fosse riuscito a riprendere il potere. Insomma cercava di tenere come al solito le zampette dappertutto..
A questo punto della favola non si sa come andò a finire, se i due reucci tornarono felici e contenti a festeggiarsi nei loro alveari o se occorrerà consultare l’oracolo per raccontare la fine della storia.

venerdì 11 marzo 2011

Ivano, stavolta non è una favola…


Ciao Ivano, la notizia che non sei tornato dal tuo ultimo viaggio mi ha scosso come il terremoto che oggi ha sconvolto il Giappone.
Ti avevo incontrato nel mondo virtuale di internet dove le amicizie ed i legami non sono però affatto virtuali. Come succedeva un tempo con le corrispondenze tra pen-friends, spesso le persone che si incontrano e con le quali si scambiano commenti e anche sentimenti su Facebook diventano così familiari che le sentiamo più vicine e confidenti di amici reali che frequentiamo fisicamente nella nostra realtà quotidiana.
Tu facevi parte di un gruppo di amici che si era spontaneamente formato per affinità di gusti, orientamenti, conoscenze, sensibilità , spirito e singolarità caratteriali, con i quali era piacevole incontrarsi, chiacchierare e scherzare quasi quotidianamente, ed eravamo così affezionati a questi appuntamenti da entrare quasi in crisi d’astinenza se per qualche motivo, una malattia, un viaggio o un semplice guasto del computer ci impediva di salutarci, anche fosse per un semplice buongiorno.
Per la familiarità che appunto consente di raggiungere questo moderno network, ci siamo anche scritti privatamente, ci siamo fatti delle confidenze ed abbiamo approfondito la nostra reciproca conoscenza. Mancava solo un incontro reale per conoscerci di persona, e l’avevamo anche programmato, visto che non eravamo neppure geograficamente lontani.
In queste lettere tu mi hai spesso rimproverato, come altri amici del resto, di aver appuntito con uno spillo le freccette di carta della mia cerbottana ( difetto che comunque mi avete sempre perdonato), oppure di essermi allontanato per giorni senza apparenti ragioni, come ora ad esempio, dalla ribalta di Facebook, ed io ho cercato di spiegartene le ragioni, come tu hai chiarito altri punti sui quali c’era stato fra noi un malinteso. In una delle mie favolette su questo blog ti avevo garbatamente preso in giro per le tue minuziose ed sapienti descrizioni di luoghi, fatti e avvenimenti, e mi sembrava che tu ti fossi un po’ risentito, invece mi avevi risposto che anzi la cosa ti aveva divertito. Tra l’altro in questa favola si diceva di te “ partì, e d’allora se ne persero le tracce”, e la cosa ora suona sinistramente profetica…
Mi avevi anche spesso invitato ad unirmi a qualcuno dei tuoi giramondi, e la cosa, se non fosse per qualche sopraggiunto acciacco senile, mi aveva tentato parecchio, visto che il fascino dei viaggi avventurosi ci accomunava ed anch’io ho un passato ricco di analoghe spedizioni in terre sperdute e spiagge esotiche. Magari in un viaggetto meno agli antipodi prima o poi ti avrei seguito, ma il destino ha voluto diversamente. Viviamo ognuno lungo strade tortuose senza sapere mai cosa c’è dietro l’angolo, e per chi suona ogni giorno la campana..
Così ora questo filo, direi meglio questo feeling, che ci univa s’é improvvisamente spezzato, perché la sorte ti ha fermato in un mare lontano, dove anch’io, guarda caso, nel lontano 1975 avevo rischiato di non tornare più a terra. So quanto sia attraente tuffarsi in quelle acque e lasciarsi affascinare dallo spettacolo del mondo sommerso, seguendo la corrente senza più curarsi della propria sicurezza.
Forse tu sei stato vittima di una di queste disattenzioni, o mi piace pensare che tu abbia preferito, come i grandi esploratori del passato, finire i tuoi giorni, conformemente alla tua indole, seguendo le esaltanti tappe di un tuo diario di bordo piuttosto che il malinconico tramonto in un letto lombardo.
Ricordo i tuoi frequenti inviti al gruppo degli stretti amici facebucchiani di organizzare un prossimo incontro mangereccio in un ristorantino dell’entroterra ligure dalle parti del “Capitano”, con vista e sapore di mare, e quello che ora più mi rammarica è di non poter veder realizzato questo progetto in questo mondo reale. Ma non è detto che non si possa farlo nell’altro mondo, quello che forse, chissà, è molto meno virtuale di quello dove ci incontravamo quaggiù.
Io ho tutti i requisiti anagrafici per arrivare per primo a questo nuovo appuntamento extraterrestre, e conto di incontrarti e sedermi con te a quella famosa tavolata, dove potremmo ingannare la lunga attesa degli altri commensali raccontandoci i dettagli dei nostri viaggi e ascoltando la musica di tutti i concerti che tu hai seguito, magari collegandoci ancora, come un tempo, in diretta su YouTube…
Per questo non ti dico addio, caro amico, ma solo un arrivederci a presto, dal tuo amico internettiano,
Paolo

mercoledì 2 marzo 2011

Un fiore e una palla


A scanso di equivoci, premetto che il componimento seguente è frutto di pura fantasia, e come suol dirsi "qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale"..


Vedo il mio cane con le orecchie tese
mentre aspetta lo scatto del cancello
e l’entrata dell’auto nel giardino.
Sono giorni che aspetta sulla porta
con quegli occhi ogni volta un po’ più tristi
e la piccola palla che ti offriva
festante come entravi nel cortile.
Ma per quell’auto ormai non c’è ritorno:
quella sera di gelo s’è fermata
sul viale dei platani imbiancati
perché volasse in alto il tuo respiro
lasciando un corpo inerte sull’asfalto.
Ho portato dei fiori su quel tronco
dove la corsa tragica è finita:
li ho colti nel giardino che curavi
e insieme al nostro cane ogni mattina
vengo a portarne ancora con amore.
Lui innaffia tutti i platani al passaggio,
ma poi quand’è davanti a quella pianta
si ferma ben distante e par capire
qualcosa dal mio sguardo, poi si siede
e aspetta che io porga il mio regalo.
Insieme siamo andati l’altro giorno
nel mesto camposanto del paese
dove riposi nel tuo eterno sonno.
Ho detto al cane: prendi la tua palla
e andiamo a regalarla a chi ci è cara.
Lui mesto m’ha seguito e poi ha capito
il gesto e le parole che gli ho detto
davanti alla tua foto ed ai tuoi fiori.
Sembrava molto triste e poi ha lasciato
cadere la sua palla su quel marmo,
col muso a terra e senza più allegria.

lunedì 21 febbraio 2011

La bellezza


Per un costante abbaglio
eri stata da sempre
come un ricco vestito
che il sarto vede e sceglie
con il metro degli occhi.
Da sempre ti guardavo
come si guarda il fiore
senza aspettare il frutto,
come ammirando i fregi
e gli ori in copertina
senza leggere il libro.
Tenevo il tuo forziere
lucente di arabeschi
senza saper se pieno
di stracci o di monete,
ma il tempo poi ha disciolto
la patina dorata
che copriva il dipinto
ed infranto quell’urna
preziosa di ceselli
che affascinava gli occhi,
per togliere le bende
al tuo corpo nascosto.
E ho potuto scoprire
la tua vera bellezza
senza vederti in viso,
come ballando al buio,
seguendo la corrente
del fiume di parole,
sentendo la tua pelle
affiorare dal trucco
dei pizzi e dei profumi,
leggendoti negli occhi
oltre il sipario sceso
di maschera sul volto,
come aprirti le valve
e trovarci una perla.

martedì 1 febbraio 2011

Il topo e le sabbie mobili


Ero seduto davanti alla TV, girai un canale e lessi un titolo che scorreva in basso sullo schermo, “200 topi inghiottiti dalle sabbie mobili”, mentre le immagini mostravano in primo piano una scena angosciante: c’era un grosso topo impantanato in una pozza melmosa, ormai sommerso con zampe e addome, quasi impietrito dal terrore, mentre un altro topo, presumibilmente la compagna o il compagno, si affannava disperatamente, non ad aiutarlo perché non poteva far nulla per salvarlo, ma si direbbe a confortarlo e stargli vicino in quegli ultimi momenti di vita. Stando ai margini della pozza, continuava freneticamente a leccare, quasi a baciare, il musetto dell’altro topo che con gli occhi sbarrati lo fissava, agitando le minuscole orecchie, l’unica parte del corpo che riusciva ancora a muovere.
Questo disperato saluto andò avanti finché il povero animale affondò del tutto, e la cosa che mi sconvolse di più è come l’operatore avesse potuto riprendere freddamente quella scena senza sentire, almeno in extremis, il bisogno di intervenire per evitare una morte tragica a quel povero essere e un dolore al suo simile. Magari aveva gettato lui stesso il topo nelle sabbie per poter girare quel video...
In quel momento pensai che, per quanto abitualmente considerati spregevoli e ripugnanti, anche i topi hanno dei sentimenti, seppure animaleschi, non certo all’altezza di quelli umani, ma neanche all’altezza della crudeltà che l’evoluzione ha consentito agli uomini.
Poi d’un tratto, evidentemente scosso come da un incubo, mi sono svegliato da questo brutto sogno, proprio stanotte, e sono rimasto a lungo sveglio a considerare se quella scena non avesse un significato premonitore, fosse cioè il presagio di qualche prossimo orrendo fatto di cronaca.
Poi invece ho pensato che fosse solo il frutto del rimorso che spesso mi riaffiora nell’inconscio per tutti i topolini che ho vivisezionato ed ucciso durante il miei studi di biologia, pratica che detestavo e che è stata una delle ragioni, se non l’unica, per cui ho abbandonato quel corso di laurea.
In alternativa o in aggiunta, c’era anche un altro brutto ricordo legato alla brutta fine di un topo. Anni fa avevo notato in cantina delle pagine di una rivista rosicchiate e il sacco dei croccantini del cane bucato, così avevo messo in giro dei pezzi di cartone cosparsi di colla muricida.
Il giorno seguente andai in cantina, sentii un disperato squittio e vidi un topolino invischiato nella colla. Si era agitato tanto che ormai aveva tre quarti del corpo, muso compreso, appiccicato al cartone e, anche volendo, non avrei potuto staccarlo se non martoriandolo. Così gli evitai una penosa agonia capovolgendo il cartone e salendoci sopra.
Ma da quel giorno non usai più la colla, presi in casa un gatto che tenne alla larga i topi, e se anche ne catturò qualcuno, penso che fosse una morte più rapida e comunque molto più conforme alle leggi della selezione naturale.
Però, tornando al sogno delle sabbie mobili, mi era rimasto impresso lo sguardo di quel topo, come se in quel primo piano avessi visto qualcosa di più di quanto possano esprimere i minuscoli occhi di un topo. Per un momento cioè avevo rivisto il lontano sguardo, prima spaventato, poi umido e triste e infine rassegnato, di una madre che mi abbandonava e che non potevo far nulla per trattenere, se non stringendole una mano come per un conforto e un addio.
Lentamente poi, da quella prima impressione di premonizione, e poi di ricordo, la scena è diventata anche un presentimento, e ho visto me stesso in quell’ora del distacco, sull’orlo di quella fossa melmosa, forse con qualcuno vicino che ormai non poteva aiutarmi, se non stringendomi una mano per accompagnarmi a sprofondare senza paura…
Mi sono alzato che non era ancora giorno, come per uscire da quella notte inquietante, e accendendo la luce ho notato sul comodino, come per una strana combinazione, il titolo del libro che sto leggendo in queste sere: “La memoria del topo”…

domenica 30 gennaio 2011

Evanescenze


Eppure ti rivedo
quando frange la luce
sul dorso delle nubi,
e ancora sei presente
nelle gocce di pioggia
e sui profili azzurri
dei monti all’orizzonte,
e tra le felci ombrose
quando scende la notte,
e un albore di luna
s’accende sopra i tetti,
e il vento frulla i ciuffi
sul colmo dei canneti,
e stagna sopra l’acqua
un vapore di nebbia.
Ti vedo nel riflesso
quando brilla il cristallo
della neve assolata,
ti sento come un guanto
che morbido accarezza
quando un soffice gatto
s’arrotola sognando
e tubano le tortore
sui rami degli abeti.
E’ un angolo di cielo
quell’iride che torna
a pilotare i passi
del mio perpetuo errare
tra i miraggi e i fantasmi
di pagine impalpabili.
E’ un eco che riaffiora
dal fondo del tuo nome
quando ai tasti premuti
rispondono le note
e un velluto di rime
imprigiona l’ascolto,
quando schiudo diaframmi
su variopinti petali
e curve lenti infilzano
collane di colori,
immagini vaganti
sul vetro degli schermi.
S’accende e poi si spegne
il faro del tuo volto
tra i lampi dei ricordi
e le notturne veglie,
ma è un volo di scintille
e aldilà del burrone
che s’allarga pian piano
sei cerva che scompare
tra le foglie del tempo.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il pappagallo e la locandiera


C’era un pappagallo che per anni aveva volato per monti e per mari, e anche ora che era vecchio continuava a spostarsi da un paese all’altro, perché non voleva essere catturato e finire in qualche gabbia. Un giorno che si stava riposando su un ramo, sentì provenire un dolce canto dalla finestra di una locanda. Si posò sul davanzale e vide una giovane locandiera che cantava mentre impastava il pane.
Lei lo vide e gli lanciò delle molliche, continuando a cantare in modo così melodioso che il pappagallo, di solito diffidente, non fuggì subito ma restò come incantato ad ascoltarla. Allora la fanciulla tese la sua mano per invitarlo ad entrare. Il pappagallo, accertatosi che non ci fossero gabbie in giro, spiegò le grandi ali multicolori e andò a posarsi in cima alla credenza, temendo che lei volesse afferrarlo.
Ma poi capì che non c’era alcun pericolo, perché lei riprese a cucinare cantando. Ogni tanto lo chiamava esortandolo ad imitare il suo canto, e ogni volta che lui ripeteva quelle parole la fanciulla gli lanciava un bocconcino in premio. Verso sera il pappagallo tornò sul suo ramo, ma non volle allontanarsi e il mattino seguente tornò dalla locandiera, per imparare nuove parole e ricevere il premio.
Le lezioni continuarono anche nei giorni successivi, e alla fine l’uccello aveva imparato più di cento parole e anche qualche motivetto. Lei lo premiava sempre con qualche dolcetto e carezzandogli le piume, così il pappagallo si affezionò alla sua insegnante e ogni mattina la accoglieva recitando una tiritera formata dalle paroline più tenere che aveva imparato.
Un giorno la locandiera gli chiese di accompagnarla mentre serviva i pasti agli avventori della locanda, e di divertirli ripetendo le parole che gli venivano dette. Il pappagallo fu contento di seguirla appollaiato sulla sua spalla, di esibirsi imitando le parole che ascoltava e recitando le sue frasi preferite. I clienti alla fine gli regalavano qualche avanzo e gli dicevano “Bravo, ora dai un bacetto alla tua padroncina” e lui tutto contento pizzicava le gote della locandiera col suo becco adunco. Alla fine c’erano sempre applausi per lui e belle mance per la graziosa cameriera.
Ma dopo qualche tempo il pappagallo capì di servire soltanto a far guadagnare monete alla locandiera senza avere nulla in cambio, si sentì sfruttato e cercò di volar via. Lei lo attrasse ancora con qualche bocconcino, poi gli legò una zampa al posatoio, e quando lui cercò di tranciare la corda col becco lo rinchiuse in una gabbia. La mattina successiva lui si finse morto, e quando la fanciulla aprì la gabbia per prenderlo e seppellirlo, spalancò le grandi ali e fuggì lontano per sempre.
Morale della favola: se sei un pappagallo parlante, variopinto e libero, non farti ingabbiare come uno scialbo merlo e non imitare la bufaga, che l’antilope accoglie sulle sue spalle non perché ama la sua compagnia, ma solo perché è brava a togliere le zecche…

domenica 23 gennaio 2011

Sassi e sabbia


Ho deposto i pensieri
sulla riva di un mare
senza affilati scogli.
Nel tunnel di luce
di un cielo a mosaico
e di nubi filanti
si sfrangiano i volti
di madri, di spose
o forse di amanti,
e piovono schegge
di parole scomposte
dalle forti tempeste.
Sugli occhi non si spegne
l’acuto sfarfallio
di antichi fotogrammi
e i pezzi di memoria
di vita frammentata
come sperduti sassi
limati dalle onde
in sconfinata sabbia.
Un volo di gabbiani
come una spugna umida
sul gesso dei ricordi
e questo tenero
rotolio di risacca
attenua lentamente
il ruvido frastuono
delle porte sbattute.

giovedì 20 gennaio 2011

Transoceanica


Dopo tante favole, è tempo di scrivere anche qualcosa di reale.
Ho appena doppiato il capo dei miei 72 anni, un passaggio che non credevo di raggiungere, se ripenso che qualche anno fa mi avevano dato per spacciato... Per cui il tempo che da allora ho vissuto e quello che ci sarà oltre questo spartiacque è tutto guadagnato e cerco di viverlo come una vita nuova, non ringiovanendo fisicamente perché il corpo va avanti comunque per la sua strada naturale, ma almeno con lo spirito e la mente di uno che ha chiuso i capitoli precedenti del suo libro e, non essendo ancora pronto per l'indice, sta raccogliendo dati, pensieri ed energie per scrivere un'appendice che concluda degnamente la storia.
Ho speso tre quarti della mia esistenza a fare cose che non mi piacevano, e solo ora, con molto ritardo, sto cercando di recuperare, spuntando tutte le note fatte in passato delle idee e dei progetti programmati e mai eseguiti, e pian piano tentando di portarli a termine, se non tutti, almeno quelli che il tempo e le condizioni attuali rendono ancora possibili.
Una delle attività che in questo periodo mi ha più dato stimoli e soddisfazione interiore è stata quella di coltivare con più costanza e applicazione la mia creatività, indirizzandola agli hobbies che ho sempre avuto, in primis alla scrittura, che è sempre stata la mia inclinazione e esercitazione preferita.
Per questo l'anno scorso ho scritto un libro, o meglio un diario di memorie, e anche diverse poesie, molte delle quali presenti in questo blog, composizioni che ho in programma di raccogliere in un'altra prossima pubblicazione.
Ultimamente ho poi intensificato la mia attività in rete, e la frequentazione di un social network come Facebook mi ha dato il vantaggio di incontrare e conoscere amici coi quali è stato piacevole conversare e approfondire tematiche e interessi comuni.
Come contropartita questo tipo di rapporti, solo teoricamente virtuali, mi ha però procurato anche attriti e incomprensioni, spesso sfociate in rotture irrimediabili con qualcuna di queste amicizie, per lo più a causa dalla mia colpevole intemperanza verbale.
Questi incidenti mi hanno ferito, alcuni lievemente, altri più a fondo, ed è proprio per consentire la cicatrizzazione di una di queste ferite che ora ho deciso di sospendere, non so se temporaneamente o definitivamente, i miei commenti in quel salotto mediatico dove ho passato tante simpatiche ore, ma che stava ormai sottraendo troppo tempo al resto dei miei programmi e attività.
Ora mi prendo un periodo di vacanza e di riflessione insieme, senza materialmente partire ma salpando comunque mentalmente per altri lidi. Tornando alla metafora del navigatore, superati gli scogli ho davanti il mare aperto, non so quanto sia vasto né cosa ci sia aldilà. In qualche isola forse mi fermerò per sempre, o forse avrò tempo per fare un lungo giro e prima o poi tornare da dove sono partito.

martedì 18 gennaio 2011

La lumaca e la conchiglia




Questa è una favola dal sapore vagamente autobiografico, salvo il finale che è ancora da scrivere...

C’era una lumaca che non aveva una casa dove ripararsi, e specie d’inverno sentiva molto freddo. Altre lumache avevano trovato da tempo la chiocciola adatta, e quando arrivava il gelo chiudevano la loro porticina e non la riaprivano più fino al ritorno della primavera.
Di solito la lumaca riusciva a sopravvivere raggomitolata nella segatura di un vecchio tronco marcio, ma quell’inverno il tronco era stato tagliato e non c’erano altri ripari adatti in giro.
Allora entrò in un orto e si scavò un tunnel nel cuore di un cavolo, che la riparava ed insieme le procurava cibo. Ma un giorno arrivò un contadino e recise il cavolo, mettendolo in una cassetta con altri cavoli. Poi tutti furono caricati su un camion e portati in un supermercato.
Il cavolo fu acquistato e arrivò nella cucina di una casa di fronte al mare, con un grande giardino, un orto e tanti animali da cortile. La cuoca tagliò il cavolo per cucinarlo, ma quando vide la lumaca lo buttò nella cesta dove raccoglieva gli scarti da dare ai maiali.
La lumaca nella notte scappò dal cesto e si arrampicò su un mobile dove aveva visto delle mensole piene di chiocciole molto belle. Erano conchiglie di mare, e lei si accorse, affacciandosi ad ogni apertura, che ognuna emetteva un suono diverso, quasi una musica, o di onde, o del vento, o di versi di uccelli e mormorii delle foglie. Scelse la conchiglia più bella, con le volute dei suoi tortiglioni più ampie e più lucenti di madreperla. Nell’etichetta alla sua base c’era scritto “Nautilus”. Nelle volte delle sue spirali si sentiva risuonare dolcemente la risacca del mare e questo sottofondo era l’ideale per addormentarsi quando fosse giunto il momento di andare in letargo. Se la caricò sulle spalle e fuggì dalla casa, nascondendosi nel giardino.
Incontrò altre lumache con le loro povere case tutte uguali dai colori smorti, con poche volute e senza musica. Tutte la invidiavano per quella bella casa, anche perché la striscia che lei lasciava dietro era la più brillante e fantasiosa, non andava mai dritta, ma tracciava degli artistici disegni sull’erba.
Ben presto questa casa lucente attrasse l’attenzione di una gazza ladra, che volò sul prato e afferrò col becco la conchiglia, portandosela nel nido. Cercò anche di far sloggiare la lumaca beccandola sulle antenne appena si affacciava, ma lei si ritrasse spaurita in fondo all’ultimo dei giri.
Attratti dallo sfavillio della madreperla, arrivarono anche dei corvi, che si misero a litigare con la gazza per il possesso della conchiglia. Alla fine uno riuscì ad impossessarsene e stringendola in becco volò lontano sorvolando il mare.
Venne una tempesta e il corvo non riuscì a trattenere la conchiglia, che con la sua grande ala prendeva troppo vento, così gli sfuggì dal becco e cadde in mare. Il Nautilus, coerentemente al suo nome, cominciò a navigare con la sua vela ben tesa in alto, finché atterrò su un’isoletta deserta proprio in mezzo al mare. Finalmente la lumaca poté uscire e godersi indisturbata quel paradiso terrestre, vivendo felice il resto dei suoi giorni. E quando, ormai vecchia, venne il momento, lasciò la sua conchiglia regalandola ad un paguro e si tuffò nell’acqua azzurra, dove, tramutata in lumaca di mare, si allontanò nel profondo, pinneggiando flessuosa con le sue cangianti e variopinte ali.

sabato 15 gennaio 2011

Il salto


Sei una faccia sbiadita
su una foto di gruppo
ritrovata tra i sorrisi
di lontani gitanti,
il tuo nome andato perso
tra le pieghe dei ricordi.
Eppure mi tagliasti
in un’ora soltanto
il glicine annodato
da sempre inestricabile
che mi serrava stretto.
Magnetica una sera
e il mio ago
deviato con forza
dal suo nord per cercarti
sotto i convenevoli
di una tavola a tre posti.
Una mano e una scossa,
trafitture di sguardi
mentre spariva il suono
delle parole altrui.
Una voglia a valanga
cresciuta in poche ore,
spire del tuo profumo
sulle labbra di lei
e quella notte prenderne una
come non mai
pensando intensamente
al corpo dell’altra.
Lasciata quella zattera
ho poi inseguito in bilico
su un tronco rotolante
un guado inesistente,
ma c’era una cascata
e il volo è stato un tuffo
in acque senza appigli
e il turbinio mi acceca
la vista ancora adesso.

giovedì 13 gennaio 2011

Il Capitano e il Vagabondo


C’era un uomo seduto su una bitta del molo di La Spezia, con un berretto da marinaio, un vecchio giaccone da lupo di mare ed un piccolo cane accovacciato a fianco. Guardava l’acqua oleosa e sembrava assorto in pensieri profondi, o semplicemente sonnecchiava.
Passò di lì un vagabondo e gli chiese “ Nostromo, chissà quante avventure capitano in mare….”
E lui laconicamente rispose : “Càpitano…” E quello: “ Oh, mi scusi, Capitàno !” Poi aggiunse: “Capitano, sto cercando un imbarco da un pezzo, mi va bene qualsiasi meta e qualsiasi lavoro, anche su una piccola nave, anche su un rimorchiatore, al limite un peschereccio, pur di partire, perché io non posso star fermo, sono un vagabondo e dopo tre giorni di sosta comincio a puzzare come il pesce…Lei per caso ha qualcosa da offrirmi ?”
L’uomo e il suo cane lo guardarono un po’ in cagnesco (più il cane dell’uomo), poi l’uomo indicò un vecchio gozzo ormeggiato poco distante e disse: “ E’ quella la mia nave, e non è neanche messa molto bene… Ma se è per non farti arrugginire, se vuoi ti faccio fare un giro qui attorno, così magari mi viene voglia di buttar giù un paio di lenze col bolentino. Però remi tu perché oggi sono molto stanco…”
Il vagabondo guardò con delusione il piccolo gozzo scrostato e unto che beccheggiava stancamente là sotto, poi con un’alzata di spalle e abbozzando mezzo sorriso, rispose: “Beh, non è questo che intendevo, ma se mi può dare un passaggio fino a quel cargo alla fonda laggiù al largo, magari riesco a rimediare un imbarco decente….”
“Ok, andiamo – disse l’uomo- tutto lì il tuo bagaglio?” aggiunse guardando il bastone con il fagotto in cima del vagabondo. “ Uso sempre un bagaglio leggero, per essere sempre pronto a partire…” rispose quello, poi aiutò il “Capitano” a recuperare il gozzo e ci saltò dentro, iniziando a vogare con forza verso la nave all’ormeggio. Arrivati sotto bordo, il vagabondo prese a gridare per farsi notare da qualcuno dell’equipaggio. Dopo un po’ si affacciarono un paio di marinai, che cominciarono ad urlare in una lingua apparentemente coerente coi caratteri cirillici dipinti sul fianco della nave. A larghi gesti fecero segno di togliersi di torno, e siccome il gozzo indugiava, arrivò più convincentemente una secchiata d’acqua sporca con contorno di cavoli marci e lische di pesce.
Il Capitano e il vagabondo credettero di interpretare che non erano molto graditi. Il primo rispose sputando ostentatamente contro lo scafo, e il secondo urlò: “Su questa sudicia carretta non ci verrei neanche se mi pagate…” tanto per darsi un contegno. Poi ricominciò a remare verso l’uscita del porto, e rivolgendosi al compagno di barca chiese: “ E adesso dove andiamo? Quando un marinaio salpa, non deve tornare mai nello stesso porto” Al Capitano questa massima sembrava una gran stronzata, ma non aveva voglia di discutere e disse: “Beh, se hai voglia di remare ancora, tieniti a dritta che ti porto a visitare le Cinque Terre”.
Così il vagabondo cominciò a remare verso occidente, doppiò lo scoglio di Portovenere e proseguì lungo l’alta costa ligure. Continuava a raccontare dei suoi viaggi, tanto a lungo che il Capitano si addormentò di nuovo. Non avendo altri uditori, il vagabondo si rivolse al piccolo cane, elencandogli tutte le razze della sua specie in ordine alfabetico, dall’alano al volpino. Sfinito, anche il piccolo cane, che non per nulla si chiamava Morfeo, cadde addormentato.
Giunsero ad una spiaggetta dove il cane e il suo padrone vollero scendere per il mal di mare che avevano, anche col mare calmo, per i racconti del vagabondo. Da lì partiva un sentiero che si arrampicava fino al borgo di Campiglia. Il vagabondo, che aveva visitato tutti gli angoli di mondo, cominciò a narrare tutta la storia di Tramonti-Campiglia, dalle origini ai nostri giorni. Inoltre disse che in cima c’era un ristorantino dove si potevano gustare dei prelibati piatti di pesce innaffiati da un ottimo Sciacchetrà, ed elencò tutto il menù dall’antipasto al dolce.
Il Capitano disse subito che a fare la salita lui non ci pensava neppure, ed anche Morfeo annuì. Chiamò col cellulare una sua amica normanna e le chiese di venirlo a trainare col suo gommone, perché era troppo stanco per remare al ritorno. Ma l’amica era impegnata a pescare e non poteva venire subito, così il Capitano chiamò un’altra sua amica che di solito passeggiava lungo un vialetto di quel monte, ed ella rispose subito all’appello: “Capitano, mio Capitano, arrivo subito e schettinando veloce ti porto su fino a quella casetta che ti piace tanto, dove potremo goderci insieme il panorama e cogliere insieme tanti papaveri, con la splendida vista del mare luccicante fino alla Gorgona”.
Il Capitano accettò subito l’allettante proposta, prese in braccio Morfeo e diede la mano all’amica, che pattinando rapida lo trascinò in cima alla montagna come agganciato ad uno skilift.
Il vagabondo, sentendosi un terzo incomodo, disse che conosceva a memoria tutta la mappa dei sentieri locali, e che ne avrebbe approfittato per farsi una traversata appenninica, raggiungendo la via Francigena, per fermarsi dalle parti di Fornovo, dove conosceva un ristorantino che serviva dell’ottimo culatello, ed elencò a memoria tutto il menù ed anche tutta la lista dei vini. Poi partì e se ne persero le tracce. Pare che qualche mese più tardi venisse arrestato per vagabondaggio.
Il capitano e la sua amica raggiunsero l’incantevole casetta a picco sul mare, dove lui non vedeva l’ora di appartarsi per farle ascoltare tutte le 38 sinfonie di Mozart e farle vedere tutti i suoi documentari girati sulle balze tramontiane ed i golfi spezzini.

martedì 11 gennaio 2011

Il girasole e le nuvole


C’era un bambino che aveva raccolto un seme in un grande campo di girasoli e l’aveva messo a germogliare in un vasetto sulla finestra della sua cameretta. Appena nato, il piccolo girasole si era guardato attorno e non aveva visto neppure una pianta uguale a lui, da cui imparare come crescere e cosa fare da grande. Vide che il bambino aveva fatto germogliare sullo stesso davanzale altri fiorellini diversi da lui, e tutti guardavano fuori dalla finestra, ma lì sotto non passava mai nessuno, così il girasole per non annoiarsi durante il giorno seguiva i giochi del bambino, restando girato verso la stanza. Quando fu grande e più alto di tutti gli altri fiori, capì che il bambino non voleva che lui lo fissasse sempre con quella grande corolla, perché veniva spesso a girare il vaso in modo che fosse costretto a guardare fuori.
Passarono le settimane: il girasole era cresciuto così tanto da picchiare il capo sopra la finestra e il vaso era diventato troppo stretto per le sue folte radici. Una volta che il bambino si era ammalato e non aveva potuto innaffiarlo lui era quasi morto di sete. Allora il bambino lo prese e lo portò all’aperto, trapiantandolo nel terreno umido vicino ad uno stagno, in modo che non soffrisse mai la sete.
Nello stagno c’era un bel fiore di loto che galleggiava sull’acqua, e vedendo il girasole sempre fisso gli disse: “ Se io avessi un bel collo lungo come il tuo, mi girerei sempre attorno a guardare il sole, e lo potrei seguire anche quando al mattino e alla sera è basso sull’orizzonte. Invece sono sempre costretto a guardare in alto nel cielo, e se c’è anche una sola nuvola il sole non lo vedo.
Il girasole capì di essere più fortunato di tanti altri fiori, girò il capo e cominciò a seguire il sole durante il suo tragitto nel cielo, ma dopo un po’arrivò una nuvola e oscurò il sole.
Lui aspettò che la nuvola si spostasse, invece ne arrivarono altre e il sole sparì del tutto. Allora capì che era inutile avere una corolla così grande e un collo così lungo se tra lui e il sole c’erano le nuvole. Chiese al fior di loto cosa si potesse fare e quello gli raccontò che talvolta alcuni fiori di loto venivano raccolti dalle fanciulle per ornare i capelli e che alcune di queste fanciulle volavano su dei grandi uccelli d’acciaio, così in alto da superare le nuvole e vedere sempre il sole, addirittura da rincorrerlo anche di notte.
Il girasole cominciò a sognare di essere raccolto da una di queste fanciulle, ma tutte quelle che vedeva passare avevano il capo troppo piccolo per poter essere ornato da un girasole.
Allora si rese conto che lui non sarebbe mai potuto andare in cielo, sopra le nuvole, e guardare sempre il sole, e si sentì triste ed inutile. Piegò il capo piangendo verso lo stagno, ma improvvisamente vide le sua immagine riflessa nell’acqua e si accorse che il sole non era sparito, era là nell’acqua che lo guardava, era sceso dal cielo solo per lui e non c’era neppure bisogno di cercarlo in giro, perché era sempre immobile nello stesso punto, bello e splendente con tutti quei raggi e il grande cerchio centrale.
Così il girasole visse felice specchiato nella sua immagine per tanti giorni ancora, e quando appassì si lasciò cadere nello stagno per restare per sempre in braccio al suo sole.

sabato 8 gennaio 2011

Valentina


Ricordo il tuo bel viso
quand’eri addormentata
come dolce bambina
cullata dalle onde,
e la barca filava
verso l’isola amata
e invidiavo quel vento
che spandeva carezze
sulle vesti leggere.
Le tue corse sfrenate
contrastanti il tuo nome
sulle lingue di sabbia
dell’atollo lontano,
e le risate allegre
finché non ti prendevo
per strapparti le pinne
che mi avevi rubato,
e gli spruzzi giocosi
per sfuggire alla presa
come anguilla oleosa,
e il tuo fiore di donna
sbocciato in pieno sole
che spiavo con l’occhio
del mio nero obbiettivo
mentre spargevi il mare
dei tuoi capelli al vento.
L’ ingenua tua malizia
di porgermi la nuca
per allacciare un piccolo
rosario di conchiglie,
forse un invito tacito
a porvi sopra un bacio,
ma eri così giovane
e son sempre restato
legato a quello scoglio
del doppio dei tuoi anni.

venerdì 7 gennaio 2011

Inguaribili


Che cronica degenza
su queste due barelle
del nostro corridoio
dalle camere chiuse,
a fianco e forse liberi
da quella soffocante
camicia sempre doppia
di forza e di piacere,
ma sempre avviluppati
ancora tra le spire
dello stesso serpente.
Tu che le fasce da mummia
io srotolo ogni giorno
senza trovarne il capo
per vederti più nuda
e toccare le pieghe
delle tue cicatrici,
io che le bende insisto
a gettare strappate
perché le mie ferite
guariscano più in fretta
e tu che le riavvolgi
credendo di sanarmi
e invece imputridendo
di nuovo le mie piaghe.

giovedì 6 gennaio 2011

La Befana ed il trenino


C’era una Befana che era stanca di andare in giro a cavallo di una scopa, senza neppure un parabrezza che la difendesse dall’aria fredda di Gennaio e un cestino dove tenere il sacco dei doni che le pesavano sempre più sulle spalle. E poi quel mezzo era troppo lento, spesso arrivava sui camini di molte case in ritardo, e i bambini restavano delusi ad attendere con le loro calze vuote.
Avrebbe voluto andare più veloce di tutti i mezzi terreni, e fare il giro del mondo in un solo giorno. Una notte sognò addirittura un veicolo extraterrestre, un razzo dove potesse entrare vestita con una tuta da astronauta anziché con i suoi vecchi stracci, e salire con quel mezzo fino in cielo, per portare i regali anche ai bambini che erano già andati in paradiso senza averla mai potuta aspettare.
Così il 6 Gennaio buttò la sua scopa ormai spelacchiata e scese in una strada dove dei ragazzi stavano sparando alcuni petardi avanzati dall’ultimo dell’anno, e chiese loro dove li avessero comprati. Loro le dissero che al botteghino delle montagne russe del Luna Park c’era un uomo che li aveva portati in un magazzino abusivo, dove venivano fabbricati e venduti illegalmente i petardi e i botti più fragorosi e pericolosi di tutto il paese.
La Befana andò al Luna Park, si fece portare dall’uomo al deposito, poi lo addormentò con un vino drogato e portò via con un carretto tutti i fuochi e i botti più potenti nascosti in quel magazzino.
Tornò al Luna Park, sganciò il trenino delle montagne russe e riempì l’ultimo carrello con tutti quei fuochi d’artificio. Poi andò al baracchino del tiro a segno, comprò tutti i balocchi, le bambole e gli orsacchiotti che c’erano e riempì gli altri carrelli con tutti quei doni.
Infine accese le micce, si mise alla guida del primo vagoncino e il trenino partì come un razzo, lasciando una scia luminosa nel cielo, brillante come la cometa che il giorno di Natale era arrivata sul presepe di ogni bimbo.
Così la Befana riuscì a fare il giro di tutte le case in un sol giorno, lasciando cadere nei camini i doni per riempire le calze dei bambini, compresi quelli un po’discoli , mentre il carbone lo riservò solo ad alcuni grandi, che non erano affatto buoni, e che di carbone ne avrebbero meritato un vagone.

Oltre la curva


Avevo gli occhi chiusi
e lo specchietto rotto
del mio retrovisore
per leggere al contrario
sui vetri appannati
delle tue buie frasi,
e i numeri spariti
sul pomolo del cambio.
Alla cieca i miei piedi
sui pedali invertiti,
rattrappite le mani
su un volante di marmo,
una strada di nebbia
le pieghe del tuo viso
e sequenze di curve
tra le tue parole.
Aspettando l’impatto
della porta sbattuta
dal turbine dell'ira
ho rivisto in un attimo
un anno di evasione
dalle mie torte briglie
seguendo le vele tese
delle tue vesti al vento.
Ora c'è solo silenzio
e al buio non distinguo
se sei ancora dentro
quella porta richiusa
o oltre quei battenti.

martedì 4 gennaio 2011

Capodanno


C'è mai stato o ci sarà un 31 Dicembre come questo ?

Crepitio di petardi
e fuochi negli occhi,
è solo un fermo immagine
con l'audio azzerato
sullo schermo piatto
del mio stare in attesa.
Scorrono i bagliori
senza tuono
dell'anno che muore
lontano in oriente,
mentre aspetto i rintocchi
dell'ultima ora
e uno squillo che arrivi
a ridarmi corrente.
Vedo l'onda come un'ola
propagare la festa,
è una miccia che brucia
sul dorso dei fusi.
Ecco il primo brillio
con la salve di scoppi
e un mare di scintille
che piove dai balconi
e le girandole colorano
la retina abbagliata.
Scappano sui muri
ombre di cani e gatti
e volano le schegge
dei piatti frantumati
nel buio dei cortili.
C'è un tappo mai saltato
e candele mai accese
sul mio tavolo vuoto,
e un fiotto di spumante
che resta nei ricordi.
Rivedo la sequenza
di foto in digitale,
incrocio di bicchieri
tra le nostre due mani
e uno scambio di baci
di cui ho perso il sapore.
Seduto alla finestra
vedo stelle filanti
di auto a luci rosse
e un'eco di granate
ormai sempre più rado.
Accendo ancora i fosfori
dell'ora sul mio polso
mentre langue la notte
sulla mia veglia inutile,
ma tace il mio telefono,
non vibra il cellulare,
è nato un nuovo anno,
è morto il mio sperare.